Dirce

Dirce parla coi morti e coi vivi no. Per me fa un’eccezione, credo, perché io fuori dalla testa parlo poco, una parola, al massimo due. Dentro la testa le parole mi si uniscono, si accavallano, girano in tondo. Qualche volta le sento in un orecchio, come un fischio, per cui devo contare fino a dieci, fino a venti, finché non smettono.

Dirce dice che i morti parlano di continuo. È tutto un mormorare. Come un tappeto di parole grigie, una trama di suoni soffocati da cui ogni tanto si alza una voce più chiara che le dice «portami via» o «fammi entrare» o «aiutami, che mi fa male il cuore». E lei il più delle volte cerca di non farci caso perché, se desse retta a tutti, sarebbe sempre lì a far cose per i morti. Però, anche se cerca di non farci caso, le parole dei morti ce le ha sempre nelle orecchie, e dice che un po’ si placano quando io vado a casa sua per la merenda.

Alle cinque le busso due volte, lei mi apre e dice: «Ciao, ho fatto i biscotti» oppure: «Ho fatto la torta margherita», oppure il budino. Ogni volta Dirce fa un dolce diverso, perché fare i dolci è la sua specialità. Io le dico: «ciao» e poi «grazie», perché mi piace essere gentile con Dirce, visto che lei è gentile con me. Mi siedo al tavolo della cucina e appoggio le mani sul marrone del legno, che è vecchio e rugoso, e seguo con l’indice le venature e le crepe, mentre Dirce prepara la merenda. Poi, mentre mi dà le spalle, trafficando coi piatti e la teiera – perché a lei per merenda piace bere il tè – le dico: «Latte», anche se non ce ne sarebbe bisogno perché se lo ricorda. Però se dico «latte» la stanza si illumina, attorno al tavolo e alla testa di Dirce si forma un bagliore, come una nebbia fluorescente, e mi sembra che solo così la merenda possa davvero cominciare.

Dirce dice che non tutti i morti sono belli da ascoltare, ma che non se li può scegliere. Sono come i parenti, che ti capitano e te li devi subire, anche se ti stanno sulle anime. Io la ascolto, e le parole nella testa se ne vanno, mi lasciano uno spazio bianco, una freschezza, come i pavimenti lavati nell’atrio della scuola, e mi sento tranquilla e senza paura come quando c’era mamma. Allora inizio il gioco degli occhi: li apro e li chiudo piano, poi sempre più veloce, chiudo apro chiudo apro, finché il viso di mamma si mette sopra a quello di Dirce, come una garza che lascia intravedere le guance di Dirce, il naso, gli occhi, ma con sopra gli occhi, il naso, le guance di mamma, che sono tonde, sode, sono come le albicocche dolci che è bello mangiare e non ti legano la bocca.

«Se li potessi scegliere, ti dico la verità, ascolterei solo Antonio. Spazio per altri non ce ne sarebbe, e farei come se fosse vivo, gli preparerei la colazione, il pranzo, e la merenda e la cena, gli farei il bagno e lo metterei a letto e ti giuro che non dormirei più, perché starei tutto il tempo a guardarlo dormire per la paura che mi scomparisse di nuovo. Ma cosa vuoi, non si può scegliere, sennò sarebbe bello e saremmo tutti felici. È buono il budino?».

Dirce dice che il destino è uno schifoso, perché le ha preso il suo unico figlio Antonio, se l’è portato via con una polmonite in una settimana, e lei ha pensato di morire, e poi di diventare matta, quando ha iniziato a sentire i morti che le parlavano e si facevano vedere e le entravano in casa. E ha pensato che era una maledizione vedere tutti quei visi che sembravano vivi, ma con un pallore, un bianco luminoso come se buttassero fuori una foschia, e sentire quelle voci, che il più delle volte sussurrano, perché hanno riguardo e chiedono scusa, ma alcune no, alcune urlano e pestano i piedi e quando sono così bisogna ignorarle perché non c’è niente che le possa calmare. Però poi, Dirce ha pensato che forse vedere i morti era una benedizione; che il destino si era pentito di quel tiro della polmonite, di aver portato via un bambino così bello, con gli occhi grandi e con le ciglia lunghe che sembravano di seta. E allora le aveva fatto questo regalo, di parlare coi morti e vederli, così poteva di nuovo incontrare il suo Antonio. «E invece niente. È da dieci anni che aspetto, ma Antonio non l’ho mai visto. Il destino è uno schifoso, perché se non mi avesse fatto questo tiro, io me ne sarei andata da un pezzo con la testa nel forno, o anzi, meglio che c’è meno rischi, con l’Halcion, tutta una confezione e via. Ma così come faccio? Col pensiero che forse domani lo rivedo?».

Anche mamma non si fa vedere né sentire. Quando ho chiesto a Dirce il perché, lei si è girata verso la finestra, ha scosso la testa e ha detto: «Povera me». Poi si è messa a rassettare la cucina, ha buttato via il latte, si è tolta il fazzoletto dalla manica per asciugarsi gli occhi e mi ha detto che, uno di questi giorni, possiamo provare a chiamarla col secchio. Si prende un secchio di latta abbastanza grande, lo si riempie d’acqua fresca e poi ci si mette a fissare la superficie, pieni di pazienza e di speranza. Non è sicura che possa funzionare, ma tentare non nuoce, dice, mal che vada hai buttato via dell’acqua, che poi via non la butti perché ci dai da bere alle piante. Quello che devo fare io, dice, è pensare a un posto tranquillo dove mettere il secchio e aspettare che mamma si mostri. Però, mentre fisso l’acqua, devo sgombrare la mente e concentrarmi, e ricordare ricordare ricordare, dice Dirce, tutti i ricordi della mia vita, senza distrazioni e senza paura. Il punto è che io i ricordi ce li ho confusi, ma questo a Dirce non l’ho detto perché non riesco a trovare le parole per spiegarglielo come si deve.

Quando non sono da Dirce, mi metto in giardino vicino all’ortensia, che un tempo era blu e ora è di nuovo rosa, perché da quando mamma non c’è ho smesso di mettere il trattamento nell’acqua. Non ho più voglia di vederla blu e di ricordare mamma che dice: «Che bel blu oltremare. Il blu è il nostro colore, vero pesciolina?». E io allora faccio sì con la testa e divento felice, perché so che mamma è contenta. È riuscita a far diventare l’ortensia del blu che preferisce e mi ha visto nuotare, e ormai sono brava come lei.

Quando il rosa dell’ortensia inizia a diventarmi pesante sulla pancia e nella gola, corro al fiume in mezzo ai verdi, perché anche loro, come Dirce, mi lasciano la testa fresca e senza parole. Accarezzo il verde peloso della salvia e quello amaro della ruta. Quello argentato e triste del salice lo consolo con una formula magica: «Un due tre, tocco l’acqua insieme a te. Quattro cinque sei, senza lacrime e piagnistei. Sette otto nove, splende il sole e più non piove». 

Poi mi sdraio sul verde estate del prato e lì respiro a fondo, riempiendo i polmoni e gonfiando la pancia, come quando sto per tuffarmi. Mentre guardo le nuvole pensando a mamma, l’erba inizia a crescere e a muoversi tutta. Prima uno stelo, poi due, tre, dieci e poi diventano così tanti che non riesco più a contarli. Si arrampicano sulle mie braccia e diventano braccialetti che si attorcigliano sui polsi e sulle dita: due giri attorno al mignolo, poi sotto all’anulare; sul medio e l’indice fanno un anello e sul pollice no. Altri fili mi entrano nel naso, insieme all’aria, mi scendono in gola, ma non mi fanno vomitare. È come un solletico che mi accarezza dentro e finisce nel petto, si allarga fino alle spalle: tutti i fili d’erba del prato mi abbracciano dall’interno, si avvolgono sul cuore, fanno un nido nella pancia. Allora chiudo gli occhi e penso a quella giornata al fiume e dico: «Mamma guardami, mi tuffo!» e mamma ha gli occhi strani, non sorride e mi urla qualcosa, ma io sono già sott’acqua e sento solo il freddo del fiume e il fango viscido che mi sfiora la testa. Mi do una spinta per tornare su e mentre risalgo tengo gli occhi aperti, perché mi piace vedere la figura di mamma attraverso l’acqua, ma quando esco lei non c’è più.

Quando ripenso a quel giorno al fiume, le parole mi riempiono la testa, si incatenano l’una all’altra, da una parola ne nascono cento, riempiono tutto muovendosi come formiche, brulicano veloci e sono nere, e fanno un rumore che è come uno scricchiolio di briciole calpestate. E io non le capisco, perché sono troppe e non lasciano neanche un po’ di spazio tra loro. Come si fa a capirvi se state così ammassate e se parlate tutte assieme, tutte con lo stesso tono, siete tutte uguali e mi entrate nelle orecchie tutte assieme e io mi sento soffocare, mi rubate l’aria, uno due tre, chiudo gli occhi, quattro cinque sei, do una spinta, sette otto nove, un’altra spinta, dieci undici dodici, ho freddo e voglio uscire dall’acqua. Do una spinta, ma mamma non c’è.

Il secchio è grande, ma non troppo. Lo abbiamo riempito fino a metà. Dirce dice che non bisogna esagerare, sennò poi diventa pesante e si fa fatica a portarlo in giro e l’acqua si rovescia, e allora cosa lo riempi troppo a fare se dopo ne perdi metà?

«Dove lo portiamo?» mi chiede, e io dico subito una parola sola che mi è arrivata chiara in testa, senza niente attorno: «fiume». Dirce mi dice «va bene» e poi, quando arriviamo: «senza distrazioni e senza paura». Io fisso l’acqua e provo a ricordare tutti i ricordi della mia vita, ma ho paura perché sento che arrivano le parole, che sono nere anche stavolta, ma non sembrano più formiche, ma bolle scure in cui la luce entra e non esce più. Si radunano sulla superficie dell’acqua, si attaccano ai bordi del secchio e iniziano a scoppiare. Quando esplode la prima bolla sento la voce di mamma che urla «non lì!» e poi ancora, sempre più forte, «non risale, non risale!». Io vorrei proprio smettere di guardare le bolle, dare una spinta col piede e tornare a galla, ma ho le braccia e le gambe pesanti e nella testa un male più forte di quando mi sono rotta il braccio.

«Sono morta Dirce?». Lei mi guarda, si asciuga gli occhi col fazzoletto che tiene sempre nella manica e poi mi dice: «Vieni con me, bambina. Ti preparo il pranzo, la merenda e la cena. Poi ti metto a letto e ti guardo dormire». 

Un racconto di Elena Molisani

Illustrazione di Alessia Arti

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