Un lieto fine

Cecilia Spano aveva lavorato per anni come insegnante di italiano nella scuola media di B, nella provincia di Cagliari. Ogni giorno aveva preso il treno da piazza Matteotti, veloce sui tacchi, con la cartella di pelle e il foulard stretto sul collo, anche a giugno. Le era piaciuto essere una pendolare, avere il tempo per osservare le stagioni dal finestrino: le gelate di gennaio, i campi morbidi in autunno. Al sabato, invece di tornare subito a casa spesso si fermava per piccoli acquisti alla Rinascente e allora come rimpiangeva di non avere avuto delle figlie femmine. Dopo si andava a sedere in uno dei caffè sotto i portici di via Roma, ordinava un pasticcino e un tè e guardava le navi che lasciavano Cagliari, sotto le palme. 

Dei palazzi seicenteschi color catarro di cui parlavano gli scrittori non le importava; aveva notato gli archi imbruniti dall’inquinamento ma col tempo si era convinta che pure quello fosse una fandonia. Erano poche le cose a cui si interessava e quando andò in pensione finirono per essere anche meno.

«Un bicchiere d’acqua, signora?» le chiese il cameriere. 

«Sì, grazie» rispose Cecilia Spano.

«Bella giornata oggi» disse il cameriere.

Cecilia grugnì. Era davvero una bella giornata, ma non aveva alcuna voglia di far conversazione. Fosse stato là Mimmo, suo marito, la cosa sarebbe stata diversa. Mimmo era un uomo allegro, ottimista, dai modi garbati, a cui bastavano cose semplici per essere felice: la pizza al sabato, vedere il mare dal terrapieno, i popcorn che scoppiettavano nella pentola. Cecilia invece rideva poco e male, così male che spesso le chiedevano se non stesse piangendo. 

«Le posso portare qualcos’altro?» chiese il cameriere. Cecilia non sapeva se trovarlo premuroso o scocciante.

«No grazie» rispose.

Dicevamo: Cecilia aveva accumulato delle verità con gli anni, pagate a sue spese, che teneva per sé. Una di queste era che la vita non era né bella né brutta, Cecilia infatti non credeva nella sfortuna, ma nella pigrizia: si sarebbe dovuto, si avrebbe potuto, tante scuse e poco olio di gomito. La vita per Cecilia era un pasticcio combinato da alcuni e risolto da altri. Il mondo era fatto di incoscienti e assennati.

«Mi scusi signora, posso prendere la sedia?» chiese il cameriere che adesso aveva l’aria contrita. Cecilia si pentì di aver pensato male. Gli sorrise e annuì.

Un’altra verità, e di questa si rammaricava, era anche di non essere stata una buona madre.

«Prendo anche questa, signora» disse il cameriere.

«Mi lasci il tavolino però» aggiunse Cecilia con tono scherzoso, non scherzava affatto.

«Ci mancherebbe signora» rispose il giovane.

Un’altra verità era appunto di non essere stata una buona madre.

«L’ha già detto» disse il cameriere.

«Sì ma non aveva mica finito».

«E che vogliamo aggiungere? Mi pare che si capisca già dove vuol andare a parare» disse il cameriere prendendo il piattino vuoto.

Cecilia si tenne al tavolino e alla sedia.

«Si faccia gli affari suoi e mi porti un altro tè e un altro pasticcino» disse.

«Così va già meglio» aggiunse il cameriere.

Riprendiamo: un’altra verità era che non era stata una buona madre e di questo si rammaricava. Un’altra ancora era che pensava troppe cose e tutte assieme, così che finiva per non riuscire a godersi neanche il suo (o suoi) tè senza rattristarsi, senza riflettere su quel che aveva detto, pensato e fatto nel passato e nel presente. 

Il cameriere ritornò fuori con un altro tè e un pasticcino.

«L’ho riscaldato, è più buono caldo» disse il giovane.

«Grazie mille» disse Cecilia.

Così Cecilia, ora in pensione, preda di rimpianti e pensieri, stava seduta al caffè di via Roma a guardare il porto per ore.

«Caffè Moderno» disse un signore coi baffi, corpulento, ben vestito.

«Avete cambiato nome?» chiese Cecilia.

«Sì da cinque anni, signora».

«Che facciamo, correggiamo?» disse Cecilia.

Così Cecilia, ora in pensione, preda di rimpianti e pensieri, stava seduta al caffè Moderno di via Roma a guardare il porto per ore.

«La ringrazio» disse l’uomo corpulento e coi baffi.

«Di nulla, dovere» disse Cecilia.

«Sono il proprietario del caffè, non mi sarei intromesso così se non fosse stato per un motivo…» 

«Si figuri, ha fatto bene».

«È pur sempre una bella pubblicità stare in un racconto».

Cecilia rise, disse: «Ma no, guardi che siamo noi a fare un favore alla signora».

«A quale signora?» disse l’uomo corpulento. Si affacciò anche il cameriere e alcuni avventori smisero di bere i caffè e mangiare i pasticcini e le pizzette sfoglia per ascoltare la signora Cecilia Spano.

«Ma a questa povera donna che scrive. Sapete non vive neanche qui, ma in Scozia». 

«In Scozia? E perché scrive di Cagliari?»

«È sarda, ha vissuto qui» disse Cecilia.

«Ah beh, allora è per questo che c’è questa atmosfera un po’…» disse il cameriere.

«Eh, avete notato anche voi?» disse Cecilia.

«Sì, e come non notarlo? Questa atmosfera un po’ da cartolina, nostalgica, come se i portici fossero ancora com’erano quindici anni fa» disse il signore corpulento e coi baffi, proprietario del Caffè Moderno.

«Eh, come ha ragione» disse Cecilia.

«Perché non scrive di sé stessa?» chiese il cameriere

«Non so, non la conosco così bene» rispose Cecilia. 

Riprese a bere il suo tè, un tè amarissimo.

«Mica così amaro» disse Cecilia.

Amarissimo. A Cecilia ricordò le mandorle amare che sua nonna mescolava a quelle dolci per… Che cosa avevano messo dentro?

«Come sarebbe a dire che c’è dentro? È un tè» disse il signore corpulento e coi baffi, che era il proprietario del caffè.

«L’ho fatto io e posso dirlo senza ombra di dubbio, che c’è solo dell’acqua calda e una bustina di tè» disse il cameriere.

«Ha un sapore strano davvero» disse Cecilia portandosi la mano al petto. La vista le si offuscò. Sentì il braccio tremare e la gola chiudersi.

«Un momento!» disse il cameriere, «Mi scusi signora scozzese, dovunque lei sia, ma che mi viene a raccontare? Che storia è questa? La signora Cecilia Spano muore avvelenata, lei ci fa chiudere, io perdo il lavoro senza aver fatto niente, il signor Murru, che ha fatto un prestito ingente per la ristrutturazione del locale, si trova nei casini e perché? Perché adesso non sa come far andare avanti il racconto?»

Cecilia si riprese, disse:

«Era uno scherzo» ma non rideva affatto. Si guardava attorno con aria circospetta.

«Che scherzo di merda» disse il cameriere.

«Ma lei è in combutta con la signora scozzese?»

«Macché combutta, io dovrei essere qui a parlare della mia vita dopo Mimmo».

«E lo faccia, prima che ci troviamo tutti in galera» disse il cameriere.

«Ha ragione» disse Cecilia. Prese un respiro profondo e di fronte agli avventori seduti ai tavoli e all’uomo corpulento coi baffi, proprietario del caffè, raccontò:

«È una vita di solitudine senza Mimmo. Di continue scoperte. Mi sembrava che mi stesse sempre a disturbare quel cristiano, con tutto quel ridere e quelle battute e quei modi che aveva di prendere le cose poco sul serio, come se la vita fosse stata un grande circo o uno scherzo, poi invece da quando non c’è più mi accorgo che alla fine è davvero così, non bisogna prenderla troppo sul serio questa vita qui, che bisogna godersi le cose piccole».

Poi bevve un sorso del tè. Era buonissimo.

Tutti gli avventori del Caffè Moderno tornarono a parlare tra loro, ordinarono altri caffè che i loro si erano sfreddati e dei pasticcini e delle pizzette sfoglia.

«Di cos’è morto Mimmo?» chiese il cameriere sottovoce. Era in pausa: si accese una sigaretta, prese uno sgabello e si sedette vicino alla signora Cecilia.

«Di tumore» rispose Cecilia, guardava il porto.

«E le sembra che ci fosse tanto da scherzare? Che non dovesse prendere la cosa sul serio?»

«C’era da piangere ogni giorno».

«E allora dica anche questo, che poi chi legge si confonde e pensa che sia tutto facile, che tutto si risolva sempre».

«Ha ragione. C’era la chemio e le operazioni, i dolori che non andavano via e il sudore che bagnava il letto a ogni ora, e poi… c’era la consapevolezza di chi muore e il terrore nei suoi occhi».

Il cameriere le prese la mano, Cecilia la strinse, disse:

«Oggi è davvero una bella giornata però».

«Sì» rispose il cameriere, poi aggiunse «le porto un altro tè che questo è diventato nero come inchiostro».

«Grazie» disse Cecilia.

«È un piacere» disse il cameriere.

Quella sera Cecilia Spano tornò a casa tardi. Aveva camminato fino al suo quartiere e le gambe le dolevano. Si fece una doccia, indossò la camicia da notte a fiori e andò a letto. Dopo le preghiere, pianse un poco e poi si addormentò con la luce accesa.

Un racconto di Paola Usala

Illustrazione di Valallart

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