Quasi seicento ombre

Ai piani superiori del mio Ufficio decisero di mandarmi sulla Torre per verificarne le reali condizioni soltanto quando le lettere di reclamo, alcune pacate, altre contenenti insulti, terribili minacce o chiodi e pezzi di vetro, raggiunsero la curiosa cifra di cinquecentonovantanove, e tutte insieme, una volta ordinate, costituivano un piccolo muro bianco di carta. Dovevo andare su quella Torre, che come molte altre sorgeva in mezzo all’oceano, e chiedere, informarmi, insomma farmi vedere. Risolvere il problema degli schiamazzi, dei continui rumori notturni, era cosa secondaria. L’importante era mostrare ai seicento inquilini scontenti il vivo interesse del nostro Ufficio. Mi suggerirono di indossare un abito scuro, formale, con tanto di cravatta, per suscitare quella specie di timore superstizioso verso le autorità. Perché in fondo per gli inquilini della Torre io rappresentavo l’autorità. In verità, non appena il mio elicottero si fu appoggiato delicatamente sulla sommità dell’alto edificio, compresi che tutto era scuro e formale, e il mio abito nero, con dentro il mio corpo, poteva anche perdersi in tutta quell’oscurità. Perfino il mare era nero. Si muoveva male, denso intorno alla Torre; non si frangeva in ampi sbuffi contro gli scogli alla base, ma li abbracciava, vi si spalmava contro in modo immorale.

Sulla cima della Torre non trovai nessuno ad aspettarmi, a parte il vento freddo. Capii subito che sarei dovuto scendere piano per piano e stanare gli inquilini dalle loro stanze, perché vedessero come l’Ufficio si interessava ai loro problemi. Sembravano intimoriti, ma io ero l’orecchio fraterno capace di ascoltare i loro lamenti. Decisi allora di lasciare l’elicottero e scendere dalle scale nere come il carbone, strette e diroccate. Subito, alla prima porta, alcuni occhi mi spiarono da una fessura appena visibile, e quando provai a parlare si richiuse con un colpo secco. Bussai, ma senza ottenere nulla. Mentre scendevo notavo qualche frammento d’un viso avvolto dall’ombra, ma nessuno voleva parlare con me. Poi le scale si divisero una, due, dieci volte e più scendevo e meno riuscivo a comprendere l’architettura della Torre. Nonostante ciò, si doveva essere sparsa la notizia del mio arrivo, perché gli inquilini si fecero meno timorosi; qualcuno restò perfino sulla soglia della sua stanza a fissarmi con occhi curiosi. Potevo così gettare uno sguardo dentro le loro misere abitazioni, a volte soltanto un letto e un fornello elettrico in un angolo, ma tutte accomunate da una grande sporcizia.

Scesi a tal punto giù nella Torre che in qualche modo divenni una figura familiare. Gli inquilini uscivano dal loro sudiciume per vedermi e qualcuno decise finalmente di parlare con me. Mi ci volle un po’ per comprendere il loro bizzarro dialetto, ma poi capii che tutte le lamentele erano rivolte verso lo stesso inquilino. Lo chiamavano “il matto”, perché sembrava attendere le ore più piccole della notte per mettersi a cantare canzoni oscene; per lo più non faceva che urlare o colpire il suo pentolino di rame con un cucchiaio di legno. Oppure diventava violento e fracassava quel che gli capitava a tiro o imbrattava con le proprie feci le porte degli altri inquilini.

«Voi siete centinaia. Lui è solo» dissi ad un gruppo di inquilini riunitisi per l’occasione dentro una di quelle piccole stanze sporche, ed eravamo tanto stretti che mi venne la nausea. Ma avevano paura di lui, e tutto quello che erano stati in grado di fare era scrivere quelle lettere scurrili.

«Cinquecentonovantanove lettere» disse soddisfatta una donna senza denti per essere riuscita a pronunciare quel numero enorme.

Insomma, non mi restò che cercare il matto, anche se non avevo un’idea precisa di cosa dirgli. Uno degli inquilini, forse il più temerario, si offrì volontario per condurmi fino alla maledetta stanza, e tutta una folla ci seguì lungo scale e corridoi, producendo un chiasso insopportabile. C’era aria di linciaggio. I più volevano far pagare al matto tutte le notti insonni che gli aveva procurato, ed io cercavo di sedare gli animi, di farli ragionare. Ormai non badavo più alla sporcizia accumulatasi su muri e pavimenti, i miei piedi indovinavano con sicurezza quanti gradini mancavano al prossimo piano, ma l’uomo che mi guidava mi fermò di colpo con una mano e con me s’arrestò l’intera folla alle nostre spalle. La porta della stanza del matto era spalancata. Si alzò un brusio, controllammo cautamente, ma la stanza era vuota.

«Sta salendo le scale!» gridò qualcuno da una rientranza buia del muro.

«Sta andando sul tetto!» urlò un’altra voce.

Allora la folla disperata prese a correre tutta nella stessa direzione e mi lasciai trasportare come da una corrente impetuosa. A forza di salire cominciai a sentire la furia del vento che colpiva la sommità della Torre. Soltanto quando raggiunsi finalmente la cima compresi perché la folla degli inquilini si era fatta improvvisamente silenziosa. Non molto lontano dalla Torre il matto volava via a bordo del mio elicottero. Evidentemente, tutte quelle lettere non erano state spedite invano. Certo, agli inquilini prudevano le mani, invocavano vendetta, ma dopotutto si erano liberati della causa di ogni loro problema.

Nel vedermi silenzioso e immobile, qualcuno ebbe perfino il coraggio di avvicinarmisi e dire:

«Se volete si è liberata giusto una stanza».

Un racconto di Valerio Ragazzini

Illustrazione di Lola

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