Due chilometri

Il lavoro era guidare la navetta lungo una strada di due chilometri, dall’aeroporto al parcheggio. E ritorno.

«Tutto qui?», chiese Antonio durante il colloquio.

«Tutto qui», confermò il responsabile, grattandosi la barba perplesso.

«Ma non potrebbero farsela a piedi? Sono due chilometri!»

«Non c’è una strada. E poi due chilometri son troppi.»

Ci volle del tempo perché Antonio si abituasse all’idea che il suo lavoro di autista fosse circoscritto a quell’unica strada. Fu un collega ad aiutarlo, mormorandogli con aria vaga:

«Non ti credere: devono esserci grossi interessi, sotto. Altrimenti, per due chilometri, non si spiega.»

La tesi delle trame oscure riuscì, alla fine, a convincerlo. Quando inseriva la marcia e avanzava di cento metri esatti fino all’immissione nella tangenziale, il pensiero di essere al margine di grossi interessi riusciva ad appianare tutti i suoi dubbi. E anche se dopo una sola accelerazione già gli toccava di rallentare e imboccare la rampa di uscita, pure gli rimaneva nell’animo un silenzioso appagamento.

«Ai miei tempi, la corsa si pagava.»

Questo fu il saluto dell’autista più anziano nell’andare in pensione, quasi che fosse un enigma lasciato in eredità ai colleghi. Non era mai stato, in effetti, un uomo di molte parole.

Eppure nessuno faticò a credere che all’inizio le cose fossero diverse. A cominciare dai clienti, che magari chiedevano informazioni in modo gentile, magari sorridevano, magari parlavano dei paesi che avevano appena visitato.

Quando Antonio aveva preso servizio, le cose erano già cambiate. Forse la concorrenza con gli altri parcheggi, forse circostanze che non era dato conoscere. Sta di fatto che da tempo la corsa era diventata gratuita. Per gli autisti non sarebbe dovuto cambiare nulla. E invece era cambiato tutto.

Tanto per cominciare la gente. Era come se, al solo leggere la parola gratuito, le aspettative di tutti si guastassero. Come se il fatto di ottenere il trasporto in cambio di nulla arrivasse fino a togliere al viaggio ogni valore. Nessuno scambiava mai due parole con l’autista. Contavano solo i minuti, il rispetto del tabellone con gli orari, le coincidenze. E l’autobus, che diventava sempre più vecchio, indisponeva i viaggiatori ancora prima di vederlo. Molti erano quelli che salivano con uno sguardo che pareva dire, a priori:

«E ti pareva che non dovesse cadere a pezzi! Guarda che roba!»

«Del resto, che pretendi? È gratis.»

Intanto i colleghi di un tempo avevano trovato, a uno a uno, lavoro altrove. Le impiegate degli autonoleggi, con cui, una volta, Antonio scherzava dopo ogni corsa, avevano cambiato mansione, erano diventate importanti. Nonostante si conoscessero da anni, non trovavano mai un momento per scambiare due parole. Ormai non gli facevano che un rapido cenno del capo. A volte nemmeno quello.

Solo lui faceva sempre gli stessi due chilometri, che ogni notte tornavano come sfondo di tutti i suoi sogni. Quei due chilometri di strada erano penetrati così a fondo nella sua carne che avrebbe saputo percorrerli anche bendato, con le curve, il brecciolino e gli avvallamenti tutti ben stampati dentro la mente. La conosceva così bene che la sua immagine si trovava ormai in un punto al di sotto della coscienza. Come quando, da ragazzo, digitava il numero di telefono della fidanzata ed erano le sue dita a conoscerlo, senza mai sbagliare. Mentre anni dopo, quando aveva cercato di ricordarselo, non era arrivato nemmeno a metà. Anche prendendo carta e penna, aveva scarabocchiato alcune cifre ma era riuscito soltanto a ingarbugliarsi.

Erano solo due chilometri. Ma gli si erano annodati così strettamente da non riuscire più a liberarsene. Gli sarebbe piaciuto fare sogni di città lontanissime, di isole boscose in mezzo all’oceano, di spiagge sconfinate e deserte, su cui approdavano magnifiche conchiglie color carne. O prati verdi, ricci di castagne, tane di volpi. Ma tutto quello che Antonio riusciva a vedere era la sua strada. Che litigasse con la moglie o che una voce terribile lo rimproverasse per colpe che nemmeno ricordava, tutto succedeva sempre lungo quei due chilometri di strada.

Un giorno Antonio si accorse che l’asfalto stava cominciando a consumarsi. Sul principio era stato solo più ruvido, mostrando i sassi dell’impasto. Poi il bitume si era fessurato con il ghiaccio e con il sole, fino a strapparsi e a lasciare libera la ghiaia, che le macchine scagliavano lontano. Qualche settimana ancora e si era aperta una piccola buca. Dopo mesi di traffico ininterrotto, la buca si era allargata tanto che, nel mezzo dell’estate, avevano dovuto riasfaltare la corsia. Poi, finalmente, in autunno avevano chiuso il cantiere e l’autobus era potuto passare sull’asfalto nuovo.

Antonio osservò già da lontano il colore scuro della novità. Gli era sembrato di una granulometria più fine. Così avrebbe detto, girandosi verso i passeggeri, granulometria, se qualcuno gli avesse mai dato retta. Per un attimo gli venne voglia di tastarlo con le ruote, quell’asfalto nuovissimo, come per sentirne il gusto. Come se, con la lingua, stesse imparando la forma di un dente appena otturato. Poco importava se i passeggeri avrebbero ondeggiato all’improvviso, come alghe del mare. E se sarebbero poi corsi in Direzione a lamentarsi per la sterzata improvvisa, che li aveva quasi fatti cadere. Sentite che liscio, avrebbe detto, socchiudendo gli occhi. Perché lui avrebbe provato un’intima soddisfazione a quel contatto, come a sfiorare la patina di lucido sulle scarpe nuove.

Tanto i passeggeri si sarebbero lamentati comunque, qualsiasi cosa fosse successa, pensò Antonio vedendo l’asfalto corrergli incontro. E passargli silenzioso a fianco. E infine sparire alle sue spalle. E se non si fossero lamentati non sarebbe stato perché aveva guidato come sempre senza sbavature ma soltanto perché, alla fine, due chilometri passano in un attimo. Non c’è il tempo di pensare a nulla, non c’è il tempo di accorgersi di nulla. In un attimo si è già davanti all’aeroporto, a dire, un po’ stupiti:

«Tutto qui?»

Un racconto di Matteo Magnani

Illustrazione di Nora

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