L’ombra più corta

Mario mi ha detto che il pavimento oggi faceva più schifo del solito; io non mi offendo, anche quando alza la voce davanti ai clienti e mi dice brutte parole che non sempre capisco. Io non mi arrabbio mai, perché Mario è buono con me, forse è l’unico amico che ho. Mario non puzza, però nemmeno sa di profumato. Riesce soltanto a coprire il sudore, perché è un uomo che lavora tanto, e il suo non è un lavoro leggero. Tutte le notti in piedi a dire sì a qualcuno, a dire no oppure a stare attento a qualcun altro. Sì, perché qui è più difficile di notte, anche se c’è meno gente, perché chi viene di notte si porta un’ombra lunga dietro, che rimane per metà fuori dalla sala. Di notte le persone sono più lente, smettono di correre.

Ho preso lo straccio. Annalisa non lo mette mai al suo posto. È una disordinata, si vede che non ama stare qui. Mastica in continuazione e, quando non mastica, fuma. Lo fa di nascosto però, perché il signor Sergio, il proprietario, ci fa fare pausa soltanto ogni due ore. Io ho fatto un conto: non potrebbe che fumare tre, massimo quattro sigarette, in una giornata di lavoro: una volta però è arrivata a dieci, ma io conosco il suo segreto.

Mario dice che lo straccio devi passarlo almeno tre volte, sennò la sporcizia la sposti, non la togli. Ci sono vecchi che, a volte, mi guardano dispiaciuti; una signora, un mese fa, mi ha anche chiesto perché non provavo ad andarmene, a cercare qualcosa di meglio. Sei giovane, mi ha detto; io ho sorriso, senza dire niente, perché non mi piace essere scostumato, ma i suoi denti erano  troppo bianchi, troppo finti. Come le sue parole. Preferisco quelle di Mario. Che poi Mario è anche papà di due bambini bellissimi, ma soprattutto è grazie a lui se ho trovato casa qui vicino: ora abito con Tonia, una ragazza brutta ma gentile. Io pago la stanza, le porto in giro il cane, e lei ogni tanto mi chiede di toccarla in mezzo alle gambe. Non ha mai avuto un fidanzato e in casa siamo sempre soli, io e lei, e il cane.

Da piccolo abitavo con mia madre, che mi aveva voluto anche se nessuno era d’accordo, soprattutto mio padre. Un uomo alto con la barba nera, che non ho quasi mai visto, se non quando ero davvero molto piccolo: mi portava al parco, si sedeva mentre io cercavo di catturare le anatre. Lui leggeva sempre grandi giornali che gli coprivano tutta la faccia, come un muro di carta tra noi due. Io guardavo le fotografie senza colori che non capivo, e a lui non importava se cadevo o mi facevo male.

Ora la sala è davvero pulita. Mi sono fatto mettere da parte un tramezzino con prosciutto, in dieci minuti dovrei riuscire a finirlo. Fa molto caldo, e mi siedo  all’ombra, anche se non mi piace stare così vicino ai distributori di benzina. Non amo le macchine perché fanno troppo rumore e portano dentro persone che non scendono, che non vogliono venire a trovarci. Le donne, al massimo, portano i bambini al bagno per la pipì. Non mi piace questo comportamento, ma mi piace ancora meno farmi domande. I bagni devono essere sempre puliti, questa è la sola cosa importante.

A lavorare non mi chiamano sempre, non ho firmato carte, infatti quando c’è la polizia, Mario fischia e io capisco che devo andarmene nel deposito. Oggi c’è anche Vittorio, perché è sabato. Il signor Sergio dice che Mario il sabato non ce la fa da solo, e si mettono in due dietro al bancone. Annalisa pensa soltanto alla cassa, e a fumare. Anche se qualche volta va dietro con Mario e gli si siede di sopra, senza mutande, vicino a dove conservo i detersivi. Ricordo che una volta mi hanno chiesto di rimanere a guardarli. Lei intanto mi teneva la mano perché era Mario che voleva così, poi mi ha ordinato di toccarle il culo, e io l’ho fatto: è stato strano, ma piacevole.

Rientro; ho finito il panino e devo controllare se qualche cliente ha pisciato sul pavimento. Saluto Cristian che lavora alle pompe di benzina. È  molto simpatico, anche se Mario mi dice sempre di non parlarci troppo, perché Cristian è uno che sa tanto e vuole saperne ancora di più. Per lui non sarà mai un buon amico, e poi è stato in prigione quand’era più giovane. Le rondini non saranno mai piccioni, così mi diceva quando parlava di lui i primi tempi; io dicevo di sì, perché mi sono sempre fidato di Mario.

Per fortuna è tutto in ordine, soltanto un po’ di sapone sull’ultimo lavello. Due minuti dopo sono di nuovo in sala, ma non vedo Mario. Chiedo a Vittorio, che però sta litigando con un’intera famiglia che parla una lingua diversa, poverino! Però Annalisa mastica alla cassa, mentre un vecchio signore conta gli spiccioli, a uno a uno, prima di farli cadere nel piattino di metallo.

«Mario, è di là con Sergio» e smette di guardarmi, ritornando a sorridere a  quel signore mezzo cieco, come fa quando Mario le mette alla radio quella canzone che odia.

«Fabio, vai sul retro, che Mario deve dirti una cosa!»

Era la voce del signor Sergio, non lo avevo visto arrivare. Mario era nel deposito, si guardava le scarpe ma non sembrava arrabbiato. Dieci minuti dopo ero disoccupato, non servivo più. Sono tornato a casa con i cinquecento euro che mi hanno dato.

Tra un po’ andrò a letto, anche se non ho sonno. Tonia si è dispiaciuta, ma mi ha chiesto lo stesso di toccarla; io lo faccio, perché Tonia non c’entra niente, lei è brutta soltanto fuori.

Un racconto di Andrea Russo

Illustrazione di Rebecca Fritsche

One thought on “L’ombra più corta

  1. La storia triste dei tanti giovani costretti a lavori umilianti e sottopagati descritta in modo realistico ma senza falso pietismo complimenti

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