Club sandwich

I grossi finestroni in vetro della sala davano sull’autostrada. Marco scelse il tavolo vicino alla tv accesa e si sedette in attesa. La zona tavolini appariva deserta rispetto al resto dell’autogrill: era un orario insolito per cenare, ma dovevano incastrarci anche il viaggio di ritorno – quell’area di sosta era a metà strada tra casa loro e quella nuova di suo padre. Marco sapeva che il papà era meno bravo a incasellare il tempo: ne perdeva troppo per strada, distratto, come quella sua vecchia Fiat che si lasciava gocciolare via l’olio sull’asfalto. La mamma, invece, era un orologio precisissimo, come il pendolo in salotto che non si fermava mai. Eppure, anche lei ora perdeva colpi: tutta la settimana l’aveva lasciato all’ingresso della scuola al suono della seconda campanella. Non era un ritardo, certo, ma per la sua mamma quella doveva essere la spia di una strana tristezza, un modo diverso di piangere.

In quel momento, in piedi accanto al tavolo del figlio, la donna non riusciva a smettere di torturare il suo orologio.

«Eccomi», suo padre gli carezzò appena i capelli. Avevano lo stesso taglio, ma Marco era biondo come la mamma.

«Dov’eri finito?», chiese lei, senza guardarlo.

«Non funzionava il bancomat, ma ho risolto. I supereroi risolvono sempre tutto!», rispose, senza staccare lo sguardo da Marco, come se quella domanda fosse venuta da chissà dove, da un fantasma lontano.

«Fa’ il bravo…», la mamma gli piazzò un bacio sulla fronte e se ne andò.

Marco sorrise appena, mentre il padre si sedeva di fronte a lui. Era la prima volta che andavano a cena fuori da soli. Insieme a loro – quasi tra loro – c’era sempre stata la mamma. Ora, invece, se ne stavano lì, in imbarazzo. Marco aveva il cuore a mille, ma si sforzava di sorridere. Aveva deciso di non fare domande sulla nuova situazione, ma non sapeva cosa dire a suo padre. Era strano: per dieci anni, aveva aspettato la sera con ansia per poter giocare con lui, lo stesso uomo che ora gli sembrava così diverso: un estraneo. Eppure, era sempre lo stesso: quello che aveva dormito al fianco della mamma per anni, che guardava i TG e i documentari tutte le sere. Quello che lo aiutava con le divisioni, che entrava a svegliarlo ogni mattina. Era sempre lui, eppure sembrava un altro. Come il nonno che diceva di essere stato quel ragazzino nella foto in bianco e nero. Forse anche il papà stava cominciando quella muta di cui parlava la maestra di scienze. E se il nuovo papà non gli fosse piaciuto? Si sforzò di non pensarci e si concentrò sulla scelta del menù: due mini club sandwich classici, due coche e una gigantesca porzione di patatine.

«Non dirlo alla mamma…», strizzò l’occhio il nuovo papà, alzandosi per andare a prendere i piatti al banco.

E fu, quella, la prima d’una lunga serie di silenzi. Fu quello il momento in cui Marco imparò a controllare le sue parole: imparò che c’erano cose che accadevano, quando stava col papà, che non bisognava dire alla mamma, e viceversa. Imparò a fare da arbitro nella partita tra la mamma e il suo nuovo papà – e gli faceva un poco strano, perché a lungo avevano giocato nella stessa squadra, o almeno a lui così era sembrato.

Il padre, intanto, portò il vassoio coi piatti. Marco guardò quel suo club sandwich enorme: il formaggio, il pomodoro, l’insalata, il prosciutto, la frittata. Fece un morso, due, tre… Ogni strato gli dava il suo sapore: ogni strato era tremendamente e straordinariamente indispensabile. Ecco: le famiglie erano come i club sandwich.

«A scuola come va?», il padre si svegliò dal letargo, da quell’ipnosi che gli provocava la magia della tv.

«Me la cavo, ma l’inglese proprio non mi va giù…».

«Picchio», gli uscì quel nomignolo dopo settimane, e fu la prima cosa davvero naturale di quella sera, «è tutta una questione di volontà».

“Anche tra te e la mamma”, avrebbe voluto dirgli, ma si morse le labbra appena in tempo. Quel Picchio lo aveva riportato a casa, e per un attimo quell’uomo era ritornato a essere il suo vecchio papà. Non poteva rovinare tutto proprio lui. In fondo, bastava anche quello: uno stupido nomignolo piazzato lì ogni tanto, come a dire: “Non hai mica sognato! Siamo esistiti davvero io, te e la mamma. Ieri…”.

E domani? Oggi era già domani: la sua terra, la sua casa, si era rotta in un arcipelago fatto di due isole separate e Marco nuotava un po’ verso l’una, un po’ verso l’altra. Giocava un po’ su una e un po’ sull’altra.

«Farai due vacanze, due compleanni. Due di tutto», gli aveva detto Teo, il suo migliore amico, per tirarlo un po’ su. Ma Teo la faceva troppo facile. La verità era che due significava unione; mentre uno e uno era il modo più giusto di definire quella nuova situazione, quell’equilibrio nello squilibrio. Uno e uno che si guardano senza sapersi vedere più, e che non sanno più nemmeno chiamarsi per nome: sono diventati soltanto lui e lei, detti con un ghigno, una smorfia sulle labbra. E non resta altro da fare che approdare, ogni giorno, su un’isola e poi sull’altra, sperando che mentre ti volti un attimo a nuotare verso una, l’altra non scompaia.

Un racconto di Annarita Celentano

Illustrazione di Giovanni Mariani

One thought on “Club sandwich

  1. “Fece un morso, due, tre… Ogni strato gli dava il suo sapore: ogni strato era tremendamente e straordinariamente indispensabile. Ecco: le famiglie erano come i club sandwich.” Più chiaro di così…..

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