Non si dice

A casa nostra c’erano le parole sì e le parole no. Una parola sì era la parola zappa. Quando la infilavo in una frase mio padre si riempiva il petto e mi accarezzava i capelli tutto orgoglioso di me. Potevo uscirmene a cena con una cosa del tipo questa zappa oggi è stata la mia più grande amica, e subito lui allargava un sorriso e spostava un bicchiere di vino sotto il mio naso. Oppure potevo azzardare un vorrei una zappa tutta per me, e il giorno dopo avrei trovato il mio arnese ai piedi del letto, con una cipolla a fare da nastro a mo’ di pacchetto di Natale.

Una parola no era la parola fame. Quella parola era assolutamente vietata, perché secondo mio padre la fame era un atteggiamento da miserabili.

– Chi si lamenta della fame? – mi domandava battendo i pugni sul tavolo e facendosi rosso in viso.

– Non saprei… chi ha la pancia vuota? – rispondevo io.

– Le femminucce! Le femminucce si lamentano della fame! –

Quando provavo a spiegare che anche gli uomini hanno bisogno di riempirsi lo stomaco, lui si alzava dal tavolo e mi urlava di cercare una soluzione, che la vita era fatta di chi si lagnava della fame e di chi lottava per farsela passare. Eppure da quando mamma era morta lui non riusciva a mettere in tavola che un tozzo di pane secco e un po’ di formaggio, se proprio ne trovava la voglia.

Anche a scuola c’erano un sacco di parole sì e di parole no, ma erano differenti rispetto a quelle di casa. Non si potevano dire le parole merda, piscio o mannaggia ai santi, cose che mio padre ripeteva tutti i giorni e che quindi io mi sentivo autorizzato a pronunciare. Si doveva sempre chiedere scusa prima di parlare, e grazie una volta terminato. Quando la maestra entrava in classe dovevamo scattare tutti all’in piedi e recitare un fastidiosissimo buongiorno, maestra Ombretta, anche se lei tirava dritto e manco ci guardava in faccia, sbattendo il registro sulla cattedra e  recitando l’appello con quel suo tono senza guizzi. Si vedeva da lontano che veniva dal nord e che non le piaceva stare a Lucania, in mezzo a tutte quelle capre e alle loro cacche a pallina che lasciavano cadere per strada come minuscole biglie puzzolenti.

Della scuola non mi piaceva nulla, tranne scrivere i temi. I temi mi piacevano un sacco perché non dovevi studiare per scriverli, quindi era impossibile arrivare impreparati. Mi piaceva raccontare quello che succedeva in casa nostra, come quella volta che mio padre è stato rincorso da un montone e si è rifugiato sopra una pianta di fico, oppure parlare di mia madre e di quei pochi ricordi che avevo di lei.

Anche quando ci davano un tema che non c’entrava niente con la mia famiglia, io cercavo sempre di ficcarcela dentro in qualche maniera. Una volta la maestra Ombretta ci chiese di scrivere qualcosa sulla religione, e io ne approfittai per scrivere di quando mio padre chiese quattromila lire di resto durante il passaggio della questua.

– Ma sono cinquemila lire! – cercò di giustificarsi con suor Paola. – Sono un mucchio di soldi, per Dio! -, sbraitò in modo che tutti si girassero a guardarci.

Alla maestra non piacque affatto il mio lavoro, soprattutto la parte in cui venivamo cacciati fuori dalla chiesa e lui cominciava a prendere a male parole Don Gino. A peggiorare la situazione citai una frase che mio padre urlò tre volte di fila, anche se, per educazione, io l’avevo riportata una volta sola nel testo. Scoprii così che le bestemmie erano parole no anche se scritte nei temi. Mi beccai un gravemente insufficiente, una nota di demerito sul registro, e la convocazione urgente di mio padre.

– Non ci vengo alla scuola, – mi disse una volta rientrato a casa, mentre addentava un salame senza nemmeno affettarlo. – Non ci vengo. –

Scosse la testa come un pugile che si era preso un bel dritto sul muso.

– E poi, che hai combinato? –

Non riuscii a guardarlo negli occhi.

– Ho usato… delle parole no. –

– Parole no? Ma di che vai parlando? – Il salame gli andò di traverso e lui placò l’attacco di tosse ingollando un bicchiere di rosso.

Quando gli spiegai quello che era successo, di tutte le cose che avevo raccontato nei temi e di quanto mi piacesse scrivere, afferrò il fiasco, riempì due bicchieri e me ne porse uno.

– Bevi -, mi sorrise lui.

Appoggiò la sua grande mano sulla mia spalla.

– E hai scritto tutta la verità? -, mi domandò.

– Beh, più o meno. Non ho raccontato di quando sei inciampato appena fuori dalla chiesa. –

Alzò il bicchiere soddisfatto.

– Hai usato la parola malattia? -, mi domandò all’improvviso.

Feci cenno di no con la testa.

Bevve un altro sorso e si rigirò il bicchiere tra le dita.

– Quella maestra Ombretta! – disse mio padre scuotendo la testa.

Ce ne restammo lì un altro po’ senza dire niente, anche se so che pensavamo entrambi alla stessa cosa.

L’orologio ticchettava prendendosi tutta la stanza. Un cane si mise ad abbaiare dalla strada.

Un racconto di Cristian Marmo

Illustrazione di Francesca Paola Turco

2 thoughts on “Non si dice

  1. La metafora delle parole, un linguaggio che altro non è che convenzione, racchiude le contraddizioni di una società che altro non fa se non remare contro i propri bisogni.
    E le prime vittime sono, come si vuol dimostrare, chi il linguaggio lo apprende da chi lo insegna bipartito fra due sfumature cromatiche, Ying e yang, specchi di una stessa medaglia di menzogne nebulose che un bambino non può distinguere da solo.
    Insomma, un insegnamento per l’adulto, un augurio per il futuro, questo il messaggio intrinseco del testo. E trovo sia stato ben espresso.

Lascia un commento