Ritratti di famiglia

Nel rudere c’è ancora il camino. Non è lussureggiante, non c’è fiamma, non emana calore. È un buco nel muro, sbilenco, scavato alla bell’e meglio da mani poderose ma imprecise,  callose, unghie spesse e raggrinzite dal rimestare nella terra bagnata, ingiallite dalla nicotina. Sul ripiano sbilenco quattro sono le cornici; ottone scheggiato, per lo più, ricoperto di verdognola dimenticanza, nebuloso come le memorie che custodisce ancora con svogliata pedanteria.

Giovani avvinazzati accasciati su un prato, circondati da macchie muffite di ottone invecchiato, orme di fango e scarponi da montagna, tagli militari e fazzoletti in testa, bretelle e fustagno, enormi fiaschi di vino rosso delle colline. La fotografia è grigia e sbiadita, i volti, appena definiti nel marasma dell’ubriachezza e di una giovinezza già da scontare, si somigliano tutti nell’incarnato emaciato post-bellico, memorie di esplosioni e arti mancanti, buche nel terreno dove accucciarsi e morire. Ma il sottobosco e i porcini annidati fra le radici brulicano ancora ignari dell’epidemia annidata nei polmoni. Nonna Adele e nonno Firmino alla fine della Grande Guerra, il primo vino novello dall’armistizio, e la focaccia al sugo rosso che non permetteranno a nessuno di chiamare pizza.

Zio Pietro, detto Giuliano, in calzoncini corti al Lido Manola, un pesce persico quasi più alto dei suoi 147 centimetri, ginocchia annerite dalle tracce del bagnasciuga, il seppia sbiadito che ha sfumato gli scogli. È sospeso fra chiazze di umido e impressioni di scogliere, a dodici anni, il persico ancora appeso all’amo, povera anima, portata d’onore al matrimonio della Marilena, misera anche lei, che il pesce proprio non lo poteva soffrire. Aveva imbracciato un fucile a diciotto anni, Pietro, e scavato solchi di fango sulle colline del Ponente, butterate di neve e pallottole, pezze attorno agli alluci congelati, cappotti ancora caldi di corpi appena morti, strani ghigni di ghiaccio e paura, tuffi nel torrente gelido, fanghiglia sul palato, per sfuggire alle imboscate di lingue allentate dalle torture, e spauracchi di tradimenti. Lo avrebbero sempre chiamato Giuliano, dopo la guerra, come il suo amore rimasto sul fondo di un pantano torbido, incastonato ad una pietra levigata, occhi da pesce e bocca di alghe.

Marilena non sorride nella foto accanto, un mezzobusto malinconico e intristito, vestita di una cornice placcata oro che ha perso ogni lusso, il colore rosso delle labbra applicato postumo da una mano luttuosa e tremolante, i capelli neri arricciati con il ferro, e quell’abito che il tempo ha tinto di giallognolo accollato fin sotto il mento. La mano della madre, chiazzata d’età e venuzze blu, non sa scrivere, ma nelle sere contadine al rudere, scoppiettanti di caldarroste e imbevute di Moscato, rimira senza tregua quella sua figlia disgraziata, ritoccandole il rossetto con un po’ di vergogna e vermiglio. Un’altra mano ha scarabocchiato una data nell’angolo in basso, l’inchiostro sbafato sul nove del 1938. Il dodici giugno pioveva quando Marilena ha sposato un tale Guglielmo Alberigi, ufficiale di fanteria del Regio Esercito, uno spilungone esecrabile dai baffi a manubrio, un dente d’oro e le dita della mano sinistra deformate da un incontro fortuito con la poliomielite.

Alberigi si era arruolato nella Brigata Savoia nel ’39 e dato alla macchia sei mesi dopo. Si dice non gli fosse rimasto nemmeno più il dente. L’ultima volta che la melancolica Marilena si è vista riflessa nel suo canino dorato era incinta di un altro e colpita da una insaziabile voglia di pesce persico arrostito. Nella foto gli siede accanto, lui tremolante nella sua uniforme troppo grande, lei annoiata da quell’ennesimo teatrino di sventura. Alberigi non ha fatto ritorno, e Marilena si è fatta insegnare a sorridere da un birbante ricciuto con gli occhi di colore diverso e una voglia a forma di falce sul petto.

Di Emanuele non vi è stata traccia sul camino sghimbescio fino al 1978: i nonni si erano ormai ricongiunti a quel Creatore che tanto languivano in terra, ed Emanuele finalmente posizionato con cura fra il ritorno di Pietro dalle montagne e le nozze infelici di Marilena che, stufa di quelle manie da zingare e segni della croce, si era fatta immortalare con il figlio alla fiera del paese, un fiore di lillà appuntato al cappotto, e per mano Emanuele, occhi diversi, una mela candita appena addentata, ricci di pietra lavica e lo sguardo torvo di chi è già stufo, a dieci anni, di tutti i santi invocati per togliergli il diavolo dalle budella.

Emanuele, sindacalista filosofo dai maglioni a collo alto, rifuggiva la “chiassosità contadina”, quell’amore ingombrante delle madri sole per i figli indiavolati. Rifiutava di tornare al paese per vendemmia e raccolta delle olive, ma celava nel suo diario memorie di mosto e panini con la farinata da far lacrimare gli occhi. Si lasciava vincere dai conati se trovava gatti morti sulla strada, e dormiva solo dopo essersi lavato dietro le orecchie e le palme dei piedi. I nonni non avevano foto di lui in bella vista, ma solo ritagli e collage in un album muffito dalla copertina di velluto rosso scuro. Il figlio del Diavolo con gli occhi diversi, e una prepotente vocazione al socialismo meno mansueto.

Un racconto di Amanda Rosso

Illustrazione di Melissa Brusati

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