Storia di una porta

Gioacchino Ferraris, falegname, la costruì in rovere. Un legno che le avrebbe garantito una longevità notevole e brillante quanto il verde che aveva scelto per dipingerla. Poi intinse il pennello nel nero e lo appoggiò delicatamente sulla parte superiore del pannello, lasciandole un puntino, come un neo. Perché è un lieve difetto a esaltare la bellezza di una diva. È il tratto che illude la gente comune di poterle assomigliare.

Il committente era il cavalier Arturo Costa, partigiano sceso dai monti con un notevole gruzzolo di mai chiarita provenienza, che aveva investito nel mercato immobiliare e si sedeva alla tavola del boom economico con l’intenzione di ordinare le portate migliori. Possedeva, oltre al resto, un appartamento con ingresso indipendente in un palazzo del centro; una bomboniera, com’era solito definirlo, che aveva da poco ristrutturato e a cui voleva regalare una porta all’inglese, come quelle che aveva visto durante la visita a una cugina emigrata a Londra.

Ecco, quindi, come Marisa – così la battezzò il falegname, perché robusta ed elegante come l’attrice di Poveri ma belli – capitò a far bella mostra di sé al 7 di via delle Rose, con quel verde che si sposava perfettamente con i grigi e i marroni circostanti ma sapeva farsi notare anche nelle sere più nebbiose.

Intorno a lei, la vita: trattorie, bar pieni di fumo e schiamazzi, locali da cui uscivano le note disordinate dei juke box. Davanti a Marisa si consumarono drammi sentimentali e baci appassionati; si fecero grandi discorsi politici e filosofici ad alta gradazione alcolica; qualcuno le vomitò sui cardini. Divenne un punto di riferimento – “Ci vediamo stasera al portone verde” – e fu testimone silenziosa dell’attentato ai danni del giudice Antonio Bruno, gambizzato di fronte a lei dopo i consueti cappuccino e brioche al bar Mille luci.

Ma la notorietà, quella vera, arrivò tempo dopo.

Andrea Santachiara, commissario di Polizia sposato con Giorgia e attuale inquilino della bomboniera di via delle Rose, stava rincasando per recuperare dei documenti dimenticati sul tavolino del soggiorno. Era passato dal bar Mille luci con la voglia di un caffè veloce, trovando con disappunto un cartello sul vetro che diceva “Torno subito”. Infilò quindi la chiave nella toppa di Marisa, che si aprì sul soggiorno dove una Giorgia altrettanto aperta era intenta a farsi infilare ripetutamente qualcos’altro dal barista del Mille luci, i gomiti appoggiati proprio sopra i documenti che il marito era tornato a recuperare.

Santachiara sorrise per quel “Torno subito” che il barista aveva lasciato, quasi a sminuire le proprie prestazioni, poi la furia prese il sopravvento e, con la pistola d’ordinanza, giustiziò gli amanti con due colpi freddi e precisi.

Nei giorni seguenti Marisa fu ripetutamente immortalata, smagliante ma sfregiata da un foglio appiccicato male che le copriva il neo e recitava “Locale sottoposto a sequestro penale”.

Si sarebbe rifatta con gli interessi qualche anno più tardi comparendo nella scena madre del film 56K, dramma sulle relazioni effimere nate nelle prime chatroom, dove la ventenne K@tya moriva davanti a quella porta, verde come lo sfondo della chat dove si era consumato il suo amore disperato. La scena si concludeva con un lento movimento di macchina a scoprire il neo di Marisa, metafora del punto nero che alberga impercettibile in tutte le cose. Manuel Acquistapace, regista alla sua opera prima, aveva scelto la porta proprio per quel particolare.

Nei mesi a seguire Viola Campanelli, intensa come una Magnani mitragliata dai tedeschi, ottenne una candidatura ai David di Donatello per il ruolo di K@tya; il film si elevò a cult dopo la dipartita a soli 27 anni del regista, investito mentre attraversava la strada digitando un messaggio su un Nokia 3310 uscito illeso dall’incidente; e Marisa divenne meta di pellegrinaggio per fans ansiosi di vederla e fotografarla. La sua immagine era stampata sulle cartoline e sulle guide ufficiali della città e il neo era il particolare ricercato che – genio d’un falegname – la rese una diva.

Ragion per cui Gabriele Costa, erede del defunto cavalier Arturo, fiutò l’affare e vendette la porta al museo cittadino di pop art, per tamponare così le sue finanze sfiancate dalla cocaina e dalle scommesse sulla serie B turca.

Al museo Marisa era al centro di una sala dedicata a 56K, in mezzo a locandine, foto, stralci di sceneggiatura, costumi e scenografie. Troneggiava illuminata a dovere, rimessa a nuovo da qualche ritocchino di restauro (un fan spudorato l’aveva violata con un piccolo “Lele was here” inciso con un Opinel), protetta da un cartello che, come un agente premuroso, recitava “Divieto di fare fotografie e riprese”.

Poi la fondazione che gestiva il museo fallì e mise i pezzi all’asta. I fasti erano passati e Marisa venne riscattata per pochi soldi da un restauratore. Pensò di rivenderla facilmente, lui che il film ancora lo conosceva a memoria. La espose ogni giorno di fianco al manifesto originale di 56K, affisso all’epoca al cinema Lux.

Oggi Marisa è ancora nella bottega del restauratore, robusta ed elegante come il primo giorno. Giusto qualche impurità, vezzo di diva che non vuole nascondere gli anni, ma sempre pronta per il suo primo piano.

Al 7 di via delle Rose ora c’è una porta blindata. Grigia. La notte scorsa, con lo spray, qualcuno ci ha scritto: SUCA.

Un racconto di Davide Cerreja Fus

Illustrazione di Anna Seghedoni

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