La casa

“Dio, il Signore, avendo formato dalla terra tutti gli animali dei campi e tutti gli uccelli del cielo, li condusse all’uomo per vedere come li avrebbe chiamati, e perché ogni essere vivente portasse il nome che l’uomo gli avrebbe dato. L’uomo diede dei nomi a tutto il bestiame, agli uccelli del cielo e ad ogni animale dei campi; ma per l’uomo non si trovò un aiuto che fosse adatto a lui”

Genesi, 2:20-21

Quando la vede per la prima volta le sembra una chiesa. Eppure, nonostante abbia sempre amato le chiese, le viene da vomitare. 

La casa ha una faccia storta e scrostata, senza balconi, ma con un enorme finestrone centrale rotondo che si finge un rosone, e alcuni vecchi stucchi sotto ai davanzali che cercano di darle un tono di nobiltà, senza riuscirci fino in fondo. Però è enorme, e senza dubbio di gran valore. 

Sara rimane un po’ esitante ed arretrata, rispettosa di quello spazio familiare di cui sente di non fare parte. 

Che fai, le chiede Giulio. Non vieni? Non ricominciare, eh…

Sara si scuote, annuisce, si accoda a lui. Lui se la tira avanti, cingendole la vita col braccio fino ad arrivare sulla pancia che già si inizia a vedere. Sente il fresco della camicetta umida sfiorarle la pelle, dove lui la tocca. L’ha indossata mezz’ora prima, è nuova e leggera, ma nel tragitto dalla macchina al cortile è già sudata. Il caldo di agosto le provoca qualche giramento di testa, fa un respiro profondo, si appoggia a lui. 

Spingila in fuori, la esorta. Che la veda bene. 

Suonano il campanello, e per qualche secondo Sara spera che non ci sia nessuno. Poco probabile, visto che si sono dati appuntamento proprio per quell’ora. E lo zio Girolamo è sempre puntuale, le aveva detto il marito preparandola all’incontro. 

L’annuncio Sara l’aveva avuto a pezzetti, nel corso del mese precedente. Una sera, tornata a casa esausta da una giornata interminabile in Esselunga – con una collega ammalata le era toccato il turno in cassa, e poi era dovuta stare un’ora in più per la spesa – aveva trovato Giulio a giocherellare in cucina, invece che schiantato sul divano del salotto. 

Eccoti qui, le aveva detto detto senza preamboli. C’è una bella novità: forse cambiamo casa.

Lei lo aveva squadrato dall’alto in basso. 

E come mai?

Lui aveva abbassato lo sguardo, esitante, e lei aveva capito che non le avrebbe detto tutto, ma solo una parte, come sempre.  

Ricordi il fratello di mio padre?

L’aveva visto un paio di volte, a qualche pranzo di parenti, nozze d’oro di un nonno forse. In quei pranzi di famiglia le sembrava sempre di vorticare in un carosello parentale in cui stringere mani, fare sorrisi, sentire nomi, cercare di ricordarli. Lo zio Girolamo, forse aveva i baffi, forse no. Di certo era quello che sembrava un prete, lo ricorda da qualche strappo sbocconcellato di conversazione. Non una figura centrale nella vita di suo marito, in ogni caso. 

Beh, mi ha chiamato oggi. M’ha detto che nella casa in cui sta ormai c’è troppo spazio per lui. La donna che gli va a pulire gli chiede troppi soldi, la casa è grande e il giardino sta andando in malora. 

Sara ha strizzato gli occhi, diffidente.

E quindi? Che c’entriamo noi? Mica ci dobbiamo trasferire con lui, ha detto. 

No, no, che hai capito. Ci mancherebbe. 

Dice che sarebbe bello che la casa la abitasse qualcuno di famiglia. Lui aveva pensato di lasciarla alla chiesa, che sarebbe un atto meritorio, dopotutto noi qui, beh, non ti faccio mancare nulla, no?

Sara aveva scrollato le spalle, annuendo, certo. Dopotutto per essere perfetti, per avere un tesoro nel cielo non serve acquistare beni, ma piuttosto cederli, come in Matteo 19:21. Ma voleva solo appoggiare le buste in frigo, spartire gli alimentari dove dovevano andare, era preoccupata dei surgelati, li immaginava sgocciolare, sciogliersi nelle loro buste, sudare, come stava sudando lei in quel momento. 

Lui dice, aveva continuato Giulio, che potremmo andare a stare lì, e lui potrebbe andarsene, nell’appartamentino in centro. Dice che gli basta. Sai che ha tre o quattro case, no?

Sara non sapeva nulla dello zio Girolamo. Solo che si era sposato molto tardi, che non avevano avuto figli, che sua moglie era morta da una decina d’anni, che Giulio andava da piccolo sempre a giocare nel parco di quella casa, senza mai entrarci. Sapeva che poi doveva esserci stato qualche screzio, come sempre accade, quando è morto il nonno di Giulio. Questioni di eredità, forse, ma le case devono essere arrivate dal lato di sua moglie, perché a loro non era arrivato quasi nulla da quel testamento. 

E quanto dovremmo pagare? Già qua facciamo fatica ad arrivare alla fine del mese, e poi un trasloco, ancora, col bambino che sta arrivando. Non lo so Giulio, a me sembra…

Ma lui alza le mani, chinando la testa. 

Pensaci, ok? Pensaci e basta. 

Sara aveva appoggiato le buste a terra, si era lasciata cadere su una sedia in cucina, approfittando del fatto che lui le doveva chiedere qualcosa, del fatto che non le avesse detto ancora tutto. E d’altra parte cosa chiedere, non è forse scritto in Corinzi, 14:34 “tacciano le donne perché non è loro permesso parlare, stiano invece sottomesse, come dice anche la legge”?

Giulio era accorso, aveva raccolto le buste, si era messo solerte a spartire tutto sulle scansie, negli sportelli, senza farle fare un passo, chiedendole solo ad ogni busta, ad ogni vasetto, dove va questo, dove lo metto?

E così sono finiti ad aspettare sul pianerottolo di questo palazzotto a forma di croce. Bello è bello, pieno di alberi, l’esterno sembra lasciato un po’ andare ma magari dentro è meglio. 

Dopo qualche minuto di attesa, mentre Sara già si chiede se davvero non abbiano sbagliato il giorno, visto che lo zio è sempre così puntuale, o se non sia per caso caduto nella doccia mentre si preparava ad accoglierli, ecco: sentono dei passi affrettati in un corridoio, una voce roca che anticipa, ci sono, ci sono, dice. La porta si spalanca con foga, appare lo zio Girolamo. Non era quello coi baffi, forse li ha tagliati, sono passati tanti anni. Non lo ricorda, eppure sembra ancora un prete: una camicia ben allacciata nonostante il caldo torrido, due bretelle nere, il cappello. Quello che lo fa sembrare un prete, pensa, è il colletto stretto, il collo piccino e stropicciato dalle troppe estati passate. 

Per una settimana non ne avevano più parlato, della casa. Poi Giulio era tornato alla carica. 

Non mi hai più chiesto nulla, per la casa. 

Che casa, ha finto lei. 

Ma come che casa, dai. Non ti interessa, davvero? Guarda che il giardino è enorme, un bosco in pratica. 

Chissà quanto costa. 

Lui trattiene un sorriso, ferma il respiro come un colpo ad effetto. 

L’ho sentito ieri, ribatte, qui viene il bello. Ce la lascia gratis.

Zitto, lasciando che le sue parole arrivino alle orecchie della moglie. Pregustando l’effetto che faranno quando lei riuscirà a capacitarsene. 

Sara aveva sgranato gli occhi. 

Gratis. In che senso, non dobbiamo pagargli l’affitto?

Giulio aveva annuito, felice come un bambino. Ora poteva finalmente sgonfiarsi via quel senso di colpa della disoccupazione, che gli faceva sentire un nodo allo stomaco ogni mattina. Che lo aveva fatto ingrassare di dieci chili.

Grazie a lui potranno permettersi molto di più, senza un affitto da pagare. E che giardino, poi, che giardino. Certo c’è da starci un po’ dietro, ma d’altra parte finché lui non trova un lavoro, gli è sempre piaciuto poi darsi da fare tra una potatura e una sfrondata, senza contare che…

Sara lo ferma, scuotendo la testa. 

È impossibile, Giulio, lo sai anche tu. Non mi hai sempre detto che era una persona meschina, che tuo padre c’ha litigato per quello, ed erano fratelli no? Non gli ha dato una mano nemmeno quando era in ospedale, e ora…

Il marito aveva aggrottato la fronte, seccato.

Ma che diffidenza, se ti dico che m’ha detto così, e anzi…

Poi si ferma di scatto, come aver detto troppo. Guarda il soffitto. 

Anzi che? chiede Sara. 

Ok te lo dico ma non farci affidamento, no. In pratica la casa ce la vorrebbe donare. 

Lei scuote la testa, non funziona così. 

E come, allora. Che ne sai tu di come funziona, Sara, magari è in punto di morte, una malattia. Magari ha, come si dice, un rimorso di coscienza. Per mio padre, no?

Possiamo solo andarla a vedere, le aveva preso le mani, costretta a guardarlo in viso. La aveva forzata ad annuire. Dopotutto, aveva sentito anche lei la felicità insinuarsi sotto al vestito; e se fosse vero. Avere una casa, una casa con un giardino. Poter dare a quel bambino che ha in grembo una casa vera, un futuro vero, e come in Timoteo 5:8 “se poi qualcuno non si prende cura dei suoi cari, soprattutto di quelli della sua famiglia, costui ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele”. È vero che gli orpelli materiali non contano nulla, ma nascere in una casa vera, non in una mangiatoia; crescere in un giardino, poter invitare qualcuno a casa, senza doversi stipare, senza doversi vergognare.  

Ma qualcosa ancora stonava. Lo sguardo di suo marito, il sorriso freddo. Mancava ancora un tassello, per avere il quadro completo; avrebbe atteso fino alla visita alla casa. 

Entrate, entrate, gli dice lo zio Girolamo. Affabile eppure lezioso, nel suo modo di condurli per i corridoi bui, che somigliano a transetti. Gli mostra le undici stanze, i tre bagni, e il giro turistico si conclude come da copione nel grande salone centrale. Sarebbe stato più scenico col caminetto acceso, ma ad agosto, tant’è. Sara lo sente parlare, è cordiale ed educato, ma nel suo ansimare da vecchio lei sente l’ansimare della bestia feroce. Sara non risponde, non lo sente, non si muove. Lo sente parlare, parlare, parlare, come tutti gli uomini di tutta la storia umana hanno parlato, uno dopo l’altro, fino a quando la bocca non è stata più sufficiente a convincere, e allora sono arrivati i denti. 

Giulio aveva atteso l’ultimo istante per completarle il mosaico. Lo aveva fatto senza grazia, appena arrestata la macchina, mentre toglieva le chiavi dal quadro, ah, e un’ultima cosa, lo zio ha detto che per regalarci la casa vuole, mentre scendeva, che chiamiamo il bambino come lui, mentre si allontanava e lei rimaneva impietrita nel sedile, mentre tornava indietro, Sara che fai non scendi, ma non dargli troppo peso, a parte che magari è una femmina, mentre le apriva la portiera, Sara ma ti pare che ci formalizziamo per un nome, mentre lei si faceva tirare per un braccio e invece avrebbe voluto solo urlare, imprecare, che poi Girolamo non è neanche un brutto nome, e lei zitta, che non aveva mai urlato né bestemmiato e nemmeno aveva voluto nemmeno anche solo pensarla nella sua mente, una bestemmia ben formata che era peccato anche quello, e riusciva solo a pensare a Genesi 2:20, chi dà il nome possiede, mentre Giulio la scuoteva e la sollevava di peso e poi la rimetteva giù, mentre lei si ricomponeva e il parcheggio la macchina il mondo intero le girava intorno, mentre il mondo si chiudeva nero e Sara pensava a una bestemmia ben formata, e intanto sveniva.

A questo link potete leggere la seconda parte del racconto scritta da Nadin Dolfe e pubblicata su Malgrado le mosche-> 2 Novembre- Finale

Un racconto di Ferdinando Mallone

Illustrato da Giovanni Mariani e Francesca Paola Turco

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