Mi grattavo sempre la testa

L’acqua era viola e ci dovevamo immergere senza infilarci dentro la testa, senza bagnare i capelli. Si stava a mollo nella vasca mi pare un tempo lunghissimo, tipo mezz’ora, perché il veleno doveva fare quello che faceva, cioè curare la pelle. Io avevo dieci anni, la mia pelle aveva una cosa che non si è mai capito, l’acqua viola mi piaceva perché aveva un colore e dentro mi ci nascondevo. Seduta fuori dalla vasca restava un’infermiera, quella che c’era libera, non la stessa della notte. Del bagno nel veleno ricordo solo il colore dell’acqua e che la vasca era piccola, non nel senso di stretta, ma corta, più corta di me che già ero corta. Mentre stavo lì dentro il più delle volte contavo: i secondi, i minuti, i giorni che ero lì dentro, mi pare fossero dieci in tutto, le volte che era venuta a trovarmi mia madre. Non veniva quasi mai o così mi sembrava. L’infermiera della notte diceva che non mi dovevo grattare, io però di notte mi grattavo la base del collo fino a sanguinare, poi quando smetteva di uscire il sangue veniva fuori il pus giallo. Allora iniziava il bruciore, che però era anche piacere. Sapevo che il cuscino si sarebbe sporcato e che se ne sarebbero accorti, sapevo che di notte avrei rovinato tutto quel bel lavoro del giorno, del veleno viola e della vasca. A volte provavo a non farlo, e ci riuscivo, ma quasi sempre continuavo fino al sangue e poi fino al pus. La mattina quando ci svegliavano facevo finta di niente. Ti sei grattata, Stefania? Scuotevo la testa di no mentre il dottore e l’infermiera guardavano la federa sporca. Io mentre aspettavo avevo un po’ di paura, ma anche mi veniva da ridere, non era ovvio? Mi sembravano tutti matti. Il più delle volte la cosa finiva lì, era la scena del controllo della federa, altre volte nel pomeriggio arrivava mia madre, sembrava stupita come se ogni volta non ricordasse che sua figlia era quella bambina lì che si grattava la testa, che era quello il motivo per cui ero in ospedale, e per cui lei aveva dovuto smettere di fare quello che stava facendo, il lavoro, e venire lì a ricordarsi da capo la storia. L’eritema, le pomate, il grattarsi, sua figlia, la vasca, il veleno. Mio padre è venuto solo una volta, mia sorella qualcuna. L’unica che veniva sempre era la zia Rita, che non lavorava e aveva tempo da perdere. Le piaceva stare in ospedale perché quando era giovane ci aveva lavorato, le piaceva rifarmi il letto anche se era già stato rifatto, raddrizzarmi il cuscino, criticare mia madre e mio padre, qualcosa che l’infermiera di turno non aveva fatto come avrebbe dovuto o il programma che avevano lasciato accesso alla televisione in reparto. Perché ti gratti, mi chiedeva, e poi scuoteva la testa. Non metteva mai un punto interrogativo alla fine. La domanda posta in quel modo mi sembrava già più sensata, meno stupida di quella del dottore, anche se della zia Rita a casa si diceva che non fosse proprio una cima. Non lo sapevo perché mi grattavo, aveva a che fare con la mia famiglia, fin lì ci arrivano, ma per il resto, chissà. Alla fine mi piaceva grattarmi, mi piaceva vedere quello che poteva uscire da dentro la testa, che non era molto, era solo del sangue e del liquido giallo, ma comunque era qualcosa, aveva un odore e un sapore, e potevo guardarlo sulla mia mano. La zia Rita non aspettava che rispondessi o che scuotessi la testa, continuava a fare quello che stava facendo, cose pratiche per lo più. A me dispiaceva per lei che aveva tutto quel tempo da perdere, mentre a casa mia non lo aveva nessuno ed era bello e giusto non averlo, lo sapevo, voleva dire che si lavorava, che un lavoro c’era, che c’erano i soldi, se non avevi tempo avevi i soldi. Non lo so perché mi grattavo. Era l’anno che alla televisione c’era la guerra del Golfo, si vedevano i giornalisti e delle carte geografiche che però non capivo. Gli americani hanno attaccato, hanno detto le infermiere una sera e da come lo avevano detto sembrava una cosa eccitante. Altre sere invece alla tele c’era Twin Peaks che però mi faceva paura, cioè era la musica a farmi paura perché mi piaceva, quando la sentivo sudavo. La storia era che lei era morta perché era bella e tutti l’amavano, anche il padre, e teneva un diario segreto in cui aveva scritto di tutti i suoi amanti. Alle infermiere piaceva molto, a me facevano paura il nano e il gigante, più di tutti però il padre quando si trasformava in quell’altro. Allora io aspettavo che tutto finisse o che tornasse la guerra alla televisione e quando restavo al buio e in silenzio mi grattavo la testa.

Un racconto di Stefania Maruelli

Illustrazione di Gianmarco De Chiara

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