La fine dei trent’anni

Io quest’anno faccio quarant’anni. All’età mia, nonno aveva già avuto quattro figli, tra cui mio padre, che alla stessa età ne aveva già avuti due. Io non ho figli, non sono sposato, e Stefania dice che non stiamo davvero insieme. Del resto, lei è di Milano. Io invece vengo da un paesino del Centro Italia che Stefania si diverte a chiamare Macondo. Dentro ci stanno settecento e rotte anime, che pensano di scapparsene e poi ci restano, o invece scappano e poi non fanno che ripensarci. Io sono scappato; nonno c’è rimasto tutta la vita; papà ha continuato ad abitarci ma ha fatto il pendolare su Roma per più di trent’anni. Lo so che il campione non è abbastanza grande per farci le statistiche, ma alle volte penso che in queste quattro righe sulla mia famiglia ci stia il cuore dell’analisi storica e sociologica degli ultimi ottant’anni di certa provincia italiana.

Quando papà ha registrato le campane di Agostino, io mi sa che non ero neanche nato. Da qualche settimana, in paese, avevano incominciato a dire che il prete voleva mettere le campane automatiche: un motore, una catena, il timer, e la questione era risolta. Dicevano che l’aveva deciso il vescovo; che adesso Agostino avrebbe potuto dedicarsi ai fiori di Sant’Antonio e alla bussola per l’offertorio; e stare appresso ai chierichetti, che erano sempre di meno e sempre più impuniti.
L’idea della registrazione era stata di nonno: prendi quel tuo aggeggio e registra le campane, aveva detto a mio padre, una domenica mattina presto. Nonno aveva tanta fantasia e gli stessi anni di Agostino. Allora papà aveva preso il registratore a cassette che usava per le prove del coro – uno di quelli piatti, coi bottoni enormi e la rotella per il volume – e se n’era andato in chiesa. Agostino gli aveva detto di fare attenzione ai gradini, che erano più alti che lunghi, e poi s’era messo a manovrare le corde. Papà era arrivato sull’ultima rampa, s’era seduto sopra a un blocco di peperino e aveva schiacciato REC.

A chi si’ figliu?, chiedeva nonno ai ragazzini che venivano a raccogliere il pallone. Casa di nonno stava sulla strada per la campagna, in mezzo al polline, all’erba, alle piante di quercia: mi ricordo che in primavera, quando andavo da lui, starnutivo sempre. C’era uno spiazzo, davanti alla casa, e i bambini della scuola ci correvano a casaccio durante la ricreazione, di solito appresso a un pallone sgonfio. A chi si’ figliu?, chiedeva nonno. Perché al paese ci si conosce più o meno tutti, però i vecchi non conoscono i bambini e i bambini non conoscono i vecchi. Certe volte la questione andava avanti pure per qualche minuto: il ragazzino ripeteva nomi e cognomi, ma invece nonno voleva i soprannomi. Parlavano due lingue diverse, parlavano.
Chi s’ha remórto?, chiedeva poi nonno a chi gli stava intorno, quando le campane suonavano i rintocchi dei trapassi, quelli lenti e lunghi che non finivano più. A me faceva effetto che lui non dicesse mai mórto ma sempre re-mórto, come di una cosa che succedeva ancora e ancora, come se al paese morisse gente in continuazione, pure se magari invece non c’erano stati funerali per mesi. Chi s’ha remórto?, chiedeva nonno. Allora incominciava a indagare e, quando veniva a sapere, o faceva una faccia sorpresa e sospirava, o invece diceva che se l’aspettava. Però quella volta che era successo a Agostino, pure se se l’aspettava, nonno aveva sospirato lo stesso. Alla fine, tutte le sante volte, guardava per aria, faceva un mezzo segno della croce e ragionava che tanto prima o poi ci tocca a tutti, e allora ma a che serve chiedersi a chi è toccato?
Quando diceva così, a me venivano in mente Hemingway e John Donne e quel fatto che nessun uomo è un’isola. Perché nonno non aveva studiato ma per me voleva dire proprio quello. Voleva dire che, quando ce ne andiamo, mica ce ne andiamo solo noi: pure a tutti gli altri, quel giorno lì, gli portiamo via un pezzetto. Perché noi non siamo isole, e non è un’isola Macondo, e non sono isole manco le case dove abitiamo. Neanche il mio monolocale, che ha venti metri quadri l’angolo cottura e i tavoli a scomparsa, è un’isola. Neanche casa di Stefania a Milano, che invece ha l’arredamento giapponese perché Stefania è anticonformista. Pure lei che ha studiato, quando gliel’ho chiesto, mi ha confermato che non siamo isole. Però ha aggiunto che è bene che ciascuno abbia il proprio spazio. Così io ho il mio monolocale in affitto, lei ha il suo bilocale in affitto, e certe sere ci mandiamo i messaggi, dai nostri rispettivi spazi.

Nonno, pure quando non stava in campagna, è della campagna che parlava. I fagioli, mi disse una volta, devono sentire le campane. I fagioli e i piselli. Io all’inizio pensavo che fosse un proverbio o una metafora, ma invece era una lezione. Lui era contento che io facessi tutt’altro, che studiassi sui libri e tenessi le mani pulite, però certe cose me le insegnava lo stesso. I fagioli e i piselli, diceva. Dopo che li hai messi giù, appena appena una manciata di terra a ricoprirli.
Se non parlava della campagna, o cantava o raccontava storie. Ne sapeva un mucchio, di storie, e quando ne attaccava una lo faceva all’improvviso, con una specie di scatto, come se gli fosse appena ritornata in mente. A me la cosa che faceva più effetto è che usava sempre le stesse parole: sembrava che le leggesse, quelle storie: che ce le avesse scritte da qualche parte, dentro la capoccia, e le leggesse, sempre identiche, come filastrocche. Una volta sono andato a trovarlo e mi sono portato dietro il registratore. Nonno negli ultimi anni ci vedeva poco: sicuramente non s’è accorto di niente. Raccontami quella del ricco e del povero, gli ho detto, e poi ho schiacciato REC.

La storia del ricco e del povero iniziava con mio nonno ragazzino che andava a scuola. Era bravo, mio nonno, sia per l’italiano che per la matematica. Fatelo studiare, ‘sto ragazzo, che merita, diceva il maestro. Ma quella di nonno era una famiglia di contadini. E nonno aveva pure un fratello. Non c’erano i soldi per farli studiare tutti e due, e di lavoro da fare, in campagna, ce n’era quanto ne voleva il maestro. Insomma, la storia finiva con la madre di nonno che rispondeva: Eh, sor maé, mo’ ficémo ‘n riccu e ‘n poveréglio
Alla fine della registrazione, nonno sospira forte e dice che è andata bene lo stesso, che l’importante è la voglia e la passione. Poi si sente uno starnuto ma quello deve essere mio. Nonno faceva ogni cosa, con la voglia e la passione: raccontare le storie, ricoprire i fagioli, cantare nel coro. Quest’ultima passione, l’aveva passata pure a mio padre. Un po’ come mio padre m’ha passato la mania delle registrazioni. Invece, la mania delle storie ce l’abbiamo tutti e tre. Io mica lo so, se un figlio ce l’avrò mai. Anche se con Stefania dormiamo spesso insieme, o a casa mia o a casa sua, lei dice che al momento non ci sono le condizioni.
Qualche anno fa, una notte, d’estate, nonno ha preso e ci ha portato via un pezzetto. M’hanno detto che se n’è andato nel sonno, che forse manco se n’è accorto. Io ovviamente non c’ero perché da Macondo ero scappato già da un pezzo. Papà dice che nelle ultime settimane le storie di nonno s’erano ridotte a due o tre, sempre le stesse, ripetute come cantilene. Sono tornato per il funerale. Il paese era uguale a come l’avevo lasciato, solo un po’ più vuoto; invece la chiesa era piena zeppa. È stato un funerale senza i chierichetti, ma con la messa cantata, e le campane automatiche.

Io quest’anno faccio quarant’anni. Dicono che sia un’età importante. Dicono che si dovrebbe festeggiare, e poi rifletterci, e poi sforzarsi di non andare in crisi. Ma io non credo che festeggerò in nessun modo. Forse andrò a cena con Stefania, che mi farà un regalo senza incartarlo, perché lei è ecologista e dice che i pacchetti sono uno spreco. Probabilmente mi regalerà un libro, come ha fatto quando ho compiuto trentott’anni e quando ne ho compiuti trentanove. Neanche allora stavamo davvero insieme. Dopo cena andremo a casa mia o a casa sua, come la maggior parte delle altre sere. La mattina dopo mi sveglierò e, se rifletterò, lo farò né più né meno di quanto ho fatto oggi, ieri e l’altroieri. Non mi sforzerò di non avere crisi, perché tanto è dal duemilaedieci che ho crisi dei trent’anni praticamente a ogni cambio di stagione, specialmente in primavera, insieme all’allergia al polline. Guardo indietro, agli ultimi dieci anni che ho passato, e mi pare di non essere cambiato troppo ma pure d’aver corso un po’ a casaccio, come appresso a un pallone sgonfio. Se ci stanno campane che suonano, mi viene da pensare, in questo momento della mia vita che sto per fare quarant’anni, devono essere quelle di una fine della ricreazione. Vorrà pure dire qualche cosa se ultimamente tutti i miei racconti cominciano con “io”, e ci sta sempre qualcuno che nasce o qualcuno che muore.

Illustrazione di Gianmarco De Chiara

Marco Volpe

Marco è nato a Roma e vive in Inghilterra, dove insegna e ricerca. Suoi racconti brevi sono apparsi qua e là.

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