Piccolo cranio ossuto

Un locale elegante, un bancone elegante, un bicchiere in peltro.

Spiriti.

E poi fette essiccate di agrumi, spezie da ogni parte del mondo, etichette crespe su boccette di vetro scuro. E il barman, smilzo, nel suo tre pezzi color mattone. Infila una sassola nel ghiaccio, sposta i cubetti dalla vasca al frullatore, tintinnano contro il vetro e rimbalzano come dadi al tavolo da gioco.

Sullo sgabello una bimba, nove anni circa, aspetta qualcuno e ha bevuto troppo. Trangugia un Margarita ghiacciato piegando il collo all’indietro, in modo eccessivo. Due sorsi e la coppa è vuota. L’appoggia al bancone, si guarda attorno e soppesa con noncuranza i presenti.

Fammene un altro, dice.

Poi aggiusta lo scollo del vestito bianco, ci guarda dentro, scuote la testa. Al posto del seno ha trovato solo costole.

Il barman si mette all’opera. Frulla ghiaccio e tequila, la mano tiene il coperchio, fischietta e sembra tranquillo. Solo, se qualcuno gli stesse accanto, sentirebbe uno strano odore sulfureo e vedrebbe salire, dalle clavicole, un finissimo vapore come se il corpo, sotto all’abito di tessuto pettinato, fosse bollente. Il barman spegne il frullatore e appoggia la coppa sul bancone. Sta per dire qualcosa, ha aperto la bocca, invece si volta di colpo, punta verso l’ingresso come un cane che ha odorato le volpi invisibili nel bosco. Sorride, solleva un angolo della bocca e mostra denti affilati, le narici si allargano, pulsano, come alla ricerca di indizi. Pochi istanti e si china, smuove con le dita calici e coppette, tamburella sui boccali in rame, esita ma infine agguanta un bicchiere da osteria. Il vetro infrangibile è sbiancato dal tempo e dai graffi, lo appoggia sul bancone, il vino rosso supera il bordo in una bolla convessa che si gonfia ma non trabocca.

Come in osteria, dice alla bambina, che annuisce senza entusiasmo.

Un uomo anziano entra nel salone, è trascurato, smarrito, raggiunge il bancone.

Signore, dice il barman, era atteso.

Poi gli indica il vino.

Il vecchio, per il primo sorso, si china fino a toccare il bicchiere con le labbra. Poi trangugia il resto.

Peccato!, esclama il barman.

L’anziano lo guarda.

Che l’abbia già finito, ora gliene verso un altro.

Intanto il vecchio ha notato la bambina, la fissa, e in modo troppo insistente. Lei afferra il Margarita dal bancone e ne beve un sorso. Ma scoppia a ridere, la tequila sale per il naso e la obbliga a tossire. Sputa e ride ancora più forte.

Il vecchio distoglie lo sguardo e trova il bicchiere pieno, di nuovo. Lo svuota.

Credo di essermi perso, dice poi.

Il barman gli sorride bonario.

Càpita, dice.

Se lei mi prestasse un telefono, mormora il vecchio, potrei chiamare e…

Sono dolente, davvero, lei non ha idea di quanto lo siamo tutti. Ma non posso accontentarla. Un tempo qui il personale era molto di più, eravamo una legione. Ma ora è diverso, non devo occuparmi solo di lei, ho tanti clienti in arrivo oggi.

Il vecchio si guarda attorno per la sala. Nessuno lo considerava, prima che si voltasse. Ora lo fissano in molti. Trova un terzo bicchiere che lo aspetta, annuisce, lo beve. Ci sono mosche ovunque, sul bancone, sulle bottiglie, sulle maniche del barman. Ronzano anche attorno al vecchio, gli camminano sui dorsi delle mani, lui allora posa il bicchiere ma la mano è incerta, il bicchiere traballa, dondola, infine rotola sul pavimento.

Caduto, dice il barman.

Il vecchio fa per scusarsi ma quello sorride, e prende un bicchiere uguale all’altro. Lo riempie.

È una cosa che càpita, dice il barman, intendo cadere. Càpita perfino ai migliori.

Il vecchio sente caldo, si slaccia qualche bottone della camicia.

Sarà il vino, dice la bambina. Ti è sempre piaciuto. E lo dice fissando il vecchio negli occhi. Poi, senza spostare lo sguardo, allunga una mano e muove le dita nella ciotolina, come piccoli tentacoli, afferra un’oliva e la porta in bocca. Mastica in modo vistoso, i denti affondano nella polpa e il rumore della saliva, il suono della lingua sul palato, si spandono per la sala. Sputa il nocciolo sulla moquette e agguanta un’altra oliva. Ma sputa subito anche quella e allarga le gambe, la gonnellina sale e mostra cosce tubolari, cilindri bianchi, sottili, che spariscono dentro le mutande a pois.

Il vecchio è immobile, riesce a muovere solo gli occhi, e ogni volta che si guarda attorno la sala si blocca per lui.

Un altro! ordina la bambina alzando il dito, poi sorride, mostra denti rovinati e gengive putride, si tocca le labbra sottili.

Bevi! dice al vecchio.

Quello si volta verso il barman.

Io forse dovrei andare, dice.

Non è così semplice, risponde il barman sorridendo.

La bambina ha tossito. Un pezzo di catarro, lanciato dal palato, tremola sul pavimento. La bambina osserva il muco e ride.

Il barman le porge un altro Margarita, poi sistema il gilet e afferra un cubetto di ghiaccio. Mostra il palmo al vecchio, dalla mano sale un turbine di vapore, il ghiaccio, a contatto con la pelle, fuma, sembra quasi un tizzone gelato sfiorato da sangue bollente.

La bambina beve il Margarita, pochi istanti e l’ha finito, Un altro! chiede.

Il vecchio è sempre lì, al bancone, in piedi, davanti al bicchiere di nuovo colmo di vino rosso; lo sguardo implorante.

Vorrei andarmene, dice, per favore…

Il barman fissa il vecchio negli occhi e non risponde. Gli avventori si accorgono, uno dopo l’altro, che al bancone sta succedendo qualcosa e si avvicinano. Intanto la bambina ride e sputa altro muco, ha afferrato una bottiglia di tequila, se la versa in bocca per sciacquare le gengive, il distillato cola e le bagna il vestitino.

Per favore, sussurra il vecchio, per favore.

Il bianco del cotone si attacca allo sterno, spuntano i capezzoli, il vecchio se ne accorge e li fissa. La bambina li tocca, li sposta, li punge con le unghie sporche. Nel salone tutti sorridono, sempre più vicini, sorrisi carichi di cortesia, silenziosi, educati. Sul tessuto dozzinale delle mutandine si allarga una macchia rossa. La tequila scende, zampilla dall’ombelico e annacqua il sangue.

Mi riconosci, adesso? chiede la bambina.

Il vecchio grida, vorrebbe che la voce gli salisse dall’anima, vorrebbe che lo sentissero tutti; ma non esce niente, solo tenebre.

Ero così alle elementari. Te lo ricordi?

Il vecchio la guarda meglio. È così magra. La pelle sottile copia le pieghe spigolose delle articolazioni, le curve secche di quel corpo leggero, svuotato, e gli zigomi piccoli di una testa piccola. Sulla fronte, fra il teschio e la poca carne, pulsa qualcosa, sembra una vena che si gonfia e si muove. Ma le vene non si spostano di lato.

È un verme, dice la bambina, e ride.

Devo andarmene, grida il vecchio, subito!

La bambina si è alzata, ha intinto un dito nel vino e lo pennella sulle labbra del vecchio. Il barman asciuga i bicchieri col panno e scuote la testa. Con un movimento deciso allunga lo straccio e se lo lancia indietro, sulla spalla. Ha perfino alzato l’altra mano, come ad accompagnare le parole che stanno per uscire.

Niente di personale, dice, ma questo luogo ha regole particolari. In fondo, sono solo affari.

La bambina intanto si è avvolta attorno al corpo del vecchio. La sua testa piccola e ossuta si muove in modo ipnotico.

Papà, dice, sai perché sei qui?

L’uomo annuisce.

No, sussurra la bambina, non lo sai. Non è per quello che hai fatto.

Il barman sorride, mostrando denti troppo aguzzi. L’uomo si guarda attorno come a cercare un supporto da chi non glielo può dare.

È perché hai fatto in modo che mi piacesse, papà. È per questo che sei qui.

Illustrazione di Nora

Michele Frisia

Michele da piccolo voleva fare il benzinaio. Non c’è riuscito e così s’è laureato in fisica teorica, ha fatto l’investigatore per la polizia e poi il perito balistico. Scriveva racconti noir e sceneggiature, ma ha smesso perché non gli piaceva. Ora scrive altro.

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