Gianmarco De Chiara – Narrandom

Kaboom

Me lo dice Serena: è al cinquanta per cento, secondo me ti cambia la vita.

Non sono i soldi, poi ne ho già uno, è che io tendo a credere, a Serena.

Apro il link: il sito è ben fatto, la descrizione entusiasta, le foto garbate.

Ma non è nemmeno questo, quanto, piuttosto, quella frase che mi pencola nella testa.

Per trentanove euro e novanta, a riuscire a crederci, voi non la cambiereste, la vita?

Faccio l’ordine sul tuo divano scomodo che è stato per un po’ il nostro, di divano scomodo.

Viviamo uno strascico di relazione, un insistere oltre il lecito, forse.

Facciamo ancora benissimo l’amore, questo rinegozia il concetto di lecito, mi dico, quasi sempre nel tuo letto.

Poi non so se sono io o è così, però appena smettiamo di tentare di costruire su quelle fondamenta, per un momento sembra tutto perfetto, nel sollievo di quei piani che non ci metteremo.

Forse è un canto del cigno. Forse sono le endorfine del post-orgasmo, negoziato senza coinvolgimenti. Ma due che si sono amati, credo, hanno dei modi di venirsi vicino che non cambiano in un giovedì di contrattazioni: sono quasi automatici, gli avvicinamenti, e i coinvolgimenti stanno lì, nei gesti, perché quei gesti sono stati fatti molte volte prima, hanno uno strascico. Ci sono delle oasi di tenerezza persino, nel disincanto, che sembrano proibite e bellissime – mi baci mentre farfuglio cose sentimentali di cui poi mi scuso. Tu dici che le cose che si dicono scopando non valgono, che a me, tutto sommato, pare una buona regola. Non dico più nulla, resto ferma, tu fumi.

Faccio l’ordine anche perché io ho un divano più comodo ma a casa di mia madre, vorrei tanto una casa mia, questa è una cosa che mi tormenta, quando tu parli della casa nuova con un amico, io sono contenta e ti odio un po’, come se togliessi qualcosa a me, a quella casa mia che non c’è.

Ti dico che arriverà un pacco, il pacco è per me.

Quando torno una sera — ti ho comprato della birra — lo trovo aperto sul tavolo.

Ce ne sono già otto, di lattine sparse. Può non voler dire niente, possono essere sparse da ieri.

Quando dici l’ho aperto perché c’era il tuo nome e il mio cognome, volevo sapere cosa valesse tanto sforzo, capisco che non sono sparse da ieri.

L’ho fatto per il corriere, ti dico, ma so che non è il punto. Taci. Perché non volevo che arrivasse da mia madre, dico, come se fingere di non capire aiutasse.

Sì, sì, dici, come a scostare la questione. Come si scaccia una mosca, come a dire: andiamo, lo so che lo sai, finiscila con le cazzate. Non è quello, dici. È che mi faceva strano, il tuo nome il mio cognome.

Non dico niente: ho finito le cazzate.

Ti ho chiesto di sposarmi, dici, e invece niente, era per comprare un vibratore.

Vorrei dire non mi hai chiesto di sposarti, mi hai detto un giorno che ci avevi pensato, ma non me lo stavi chiedendo, sapevi che mi sarebbe venuto il panico. Eravamo naufragati già sei o sette volte, vorrei dire, non mi pareva che ci fossero i presupposti per rilanciare. Vorrei dire che non avrei preso il tuo cognome in ogni caso, sono finiti gli anni Cinquanta. Vorrei dire guarda che sono io che ti dico sono qui, sono davvero qui, ma resto solo se diventiamo un tentativo, non uno strascico che sentiremo erodere via via nei giorni, nei gesti. Vorrei dire: se la piantassi di mettere le righe sotto ai vuoti di prima ti accorgeresti che sono qui, se sposti lo sguardo puoi guardare un pieno, invece del tuo orgoglio gualcito.

Invece non dico niente, entro in cucina, apro una birra che ho messo in frigo tre minuti prima, è calda, la bevo uguale, mi siedo vicino a te sul divano scomodo, stai guardando Scrubs per la sedicesima volta.

Ti passo le dita fra i capelli pensando a un verso che dice: ti pettino di carezze i pensieri.

A un certo punto mi dici vuoi che lo proviamo e io non capisco subito, lì per lì lo scambio per un guizzo di speranza, come un salto di delfino — è a forma di delfino, è viola, si chiama kaboom, pare un bel nome — con tutti quegli spruzzi, e non so nemmeno subito cosa dirti: mi imbarazza? si può rispondere mi imbarazzo alla speranza?


Un racconto di Stella Poli
Illustrazione di Gianmarco De Chiara

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