Frankenstein

Parigi 1720

«Di’ a tuo padre di chiamare la levatrice» dice alla bambina. Sul letto la donna soffre, si contorce muovendo le gambe come una rana, nell’acqua che la sua pancia ha rovesciato sulle lenzuola. Madeleine ricorda la madre sempre incinta, ma mai con un neonato al seno. Il suo ventre si gonfiava e si sgonfiava in una continua suzione che non passava per i capezzoli.

  Nella stalla il papà controlla quanto latte le mucche danno ai vitelli, nell’ultimo periodo quello che resta per la fattoria è poco, e non se lo spiega.

«Il bambino sta nascendo».

«Non devi dire quella parola, mi hai capito?» risponde il padre strattonandola per le braccia, prima d’uscire lasciandola sola.

Bambino, al maschile, è la parola da evitare. Madeleine lo ha capito con la nascita del suo ultimo fratellino, nato morto come gli altri prima di lui. A otto anni, in quella famiglia è l’unica ad aver avuto la fortuna di crescere.

«La signora non porta avanti i maschi» dicevano i medici.

«Sarà un caso» aveva detto il padre dopo la seconda perdita. «È stata Madeleine». La sentenza pronunciata il giorno del terzo parto.

  La giovane levatrice, la solita anche in quell’occasione, aveva preso per i piedi il bambino. A testa in giù, il piccolo non si muoveva, sembrava un coniglio senza pelliccia che scolava sangue. La nonna di Madeleine, con gli occhi coperti dalla cataratta, aveva guardato allora la ragazza in malo modo.

«L’hai ucciso tu» l’accusò la vecchia.

«No, io non c’entro» rispose tremando. Appeso tra le sue mani, il neonato pareva muoversi. «È stata Madeleine. È lei che ha lasciato qualcosa nel corpo della madre e l’ha infettata» disse additando la bambina nella speranza d’essere creduta.

La piccola fece cadere il rosario, glielo avevano dato con un “tieni e prega” e lei l’aveva recitato per tutto il travaglio.

«Esci. Vai a giocare», le intimò la nonna.

   Madeleine si alzò dalla sedia con la fretta di lasciare la stanza; intimorita dal silenzio e da quegli occhi che la seguirono fino alla porta e ancora più in là. 

  Cos’ho che non va, s’era chiesta più volte da allora. A parte i pidocchi o la tosse, non ho niente che posso attaccare o che possa far male.

Ci pensa anche adesso nella stalla. I vitelli sono attaccati alle mammelle, come sempre, il cane dorme, come sempre. L’ammasso sotto il telo si muove appena, come sempre dal giorno che Madeleine s’è accorta della sua presenza.

«Puoi uscire se vuoi. Sono tutti impegnati con il bamb… neonato» dice Madeleine alla figura che, nascosta tra il fieno e la legna, dopo le sue parole si muove un poco di più. Curvo sotto il tessuto marrone, sembra un mucchio di terra. Si sente così anche lei, tumulata da un senso di colpa che la rende un’ombra in casa sua. Forse è per questa affinità che non ha paura di lui. Gli animali intorno sono tranquilli e Madeleine sente di esserlo a sua volta.

«Vado anch’io» dice, sperando che una volta solo possa nutrirsi di latte.

In giardino, tra le lapidi dei neonati, Madeleine trova sollievo. Cammina scalza sulla terra che condivide coi fratelli. Desidera essere una lumaca per poter strisciare e appiccicare col corpo la vita del suolo e le sue trasformazioni. Stacca una mela dall’albero e la mangia. Accoglie sulla mano il lombrico sbucato dalla zolla per farselo camminare addosso. Infila le dita nel terreno per poi annusarle una volta tolte. Sotto le unghie le rimane la terra che di certo non toglierà. Corre tra le piante sentendosi leggera, ma il pensiero di quello che avviene in casa la preoccupa. Ti prego Dio, fa che vada tutto bene.

Quando i vagiti non prendono il posto delle grida del parto,   Madeleine capisce che da tre, le lapidi diventeranno quattro. Si fa coraggio ed entra in casa.

Nella stanza, insieme alla madre c’è il papà. Il fagotto nella cesta è coperto anche sul viso.

«Mamma…»

«Vai via», le urla la donna lanciandole l’asciugamano bagnato delle sue acque. Madeleine scappa in giardino. Ha voglia di spogliarsi e di sdraiarsi sulle zolle per sentirsi un intero con le parti di lei che sono lì, i suoi fratelli. Poi pensa all’altra terra, quella che nell’ammasso sotto il telo gliela ricorda. Io ho questo spazio in cui mi sento bene, e tu? pensa dell’essere che reputa simile a lei. Tra i ciocchi di legno e la paglia, lo trova nella stessa posizione in cui l’ha lasciato. Si muove appena. Respira o piange? pensa Madeleine.

«Tieni. Ti ho portato l’acqua, forse ne hai bisogno» gli dice, e adagia su quelle che reputa le sue spalle il telo imbevuto del liquido amniotico di sua madre. Poi torna a correre in giardino, respirando a pieni polmoni.

  Nella stalla la sera, il telo non si muove, così il giorno dopo e il giorno dopo ancora. Preoccupata Madeleine decide di sollevarlo. Fa un passo indietro, quando vede che sotto ci sono solo i contenitori del latte semivuoti. L’asciugamano invece non l’ha più ritrovato. Per settimane ha scrutato gli angoli della stalla, mentre attingeva al latte delle cisterne ritornate piene.

Un racconto di Laura Marinelli

Illustrazione di Alessandra Luciani

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