Alessandra Luciani per R.S

Denti

Le possibilità sono due: o il coglione che doveva portarla a mangiare in questo tapas bar mediocre le ha dato buca, o la ricciola si è deliziata con una cenetta da sola di lunedì sera, e ora è in cerca.

Propendo per la seconda, visti gli sguardi che mi manda. Succhia la salsa piccante dalle patate, si lecca le labbra e alza su di me gli occhi cerchiati viola. Se non fosse per i miei denti, sarei già a casa a chiederle se le piace nel culo.

Ovviamente, direbbe sì.

Con le ragazzette è facile – organizzare eventi e serate al Razzmatazz ti costringe a studiarle, conoscerle, capirle. È il paradiso dei quarantenni single, persino quelli patetici coi denti spappolati dalla metanfetamina.

A Barcellona, se sei americano, le ragazzette pensano che tu sia di New York o di Los Angeles o di qualsiasi altro posto dove è stato girato un film del cazzo con Jennifer Lopez che s’innamora di un milionario dal sorriso sfavillante.

L’idea che uno possa venire da un sobborgo di Oklahoma City e sia capitato a Barcellona quasi per caso, dopo una vita passata in un camper a scuoiare opossum e organizzare rave abusivi nei campi, non le sfiora minimamente. Nemmeno se ne ho la prova schiacciante – i miei denti sgretolati, demoliti, annientati, che parlano troppo di me.

Ricciola ha occhiaie profonde, come se qualcuno avesse provato a scavarle un’insenatura sotto gli occhi. Mi domando perché, ma non apro bocca.

Probabilmente lei si chiede lo stesso di me – ho passato la notte insonne, su Google, a leggere di cosa mi succederà e come mi sentirò domani, quando la dentista mi rifarà i denti davanti. Da quando sono sbarcato a Barcellona e ho cominciato a lavorare al Razzmatazz, non ho pensato ad altro. Volevo solo guadagnare abbastanza per aggiustare questi cazzo di denti. Non volevo nient’altro. Neanche le droghe.

Domani sarà un grande giorno, e questa sarà l’ultima notte in cui dovrò preoccuparmi se la ragazza vomiterà alla vista della mia dentatura scorticata. Di solito cercano di essere educate, ma io me ne accorgo sempre – un impercettibile tremolio del labbro superiore o della palpebra, un microscopico ventaglio di rughe intorno agli occhi che freme improvvisamente, non appena apro bocca.

Ricciola non sembra farci caso, per ora, ma forse non le ho mostrato la bocca abbastanza. Non ancora.

Ay, papi”, mi fa a un tratto, le occhiaie quasi cremisi sotto la luce al neon del tapas bar. “La finisci quella birra, così andiamo a scopare?”

Le rispondo di sì, lei si alza; continua a chiamarmi papi.

Mentre le sorrido, scopro tutti i denti.

Un quarto d’ora dopo le sto affondando un pollice nel culo e lei stringe i pugni. Urla papi, papi, guardando il muro, e sembra che pianga.

Da dietro, le ragazzette non devono guardarmi i denti, ma di solito si girano verso di me, gli occhi lucidi e arrossati, il sudore che si allinea lungo l’attaccatura dei capelli, e mi chiedono di scoparle di più, ancora, più forte. Ricciola invece singhiozza, e urla papi. Non si volta mai.

Sta giù.

Non le importa dei miei denti. In questo momento, io sono un’appendice attaccata a un cazzo di dimensioni decenti. Ricciola si fa scopare senza muoversi.

Una bambola gonfiabile.

La afferro per le gambe, la tiro a me, la volto sulla pancia.

I riccioli neri sono sparsi sul cuscino come onde di grafite, le volano sul viso e s’infilano nel buco nero della bocca mentre urla papi, papi, tra un singhiozzo e l’altro, e io digrigno i denti, ma lei non apre gli occhi – non mi vede; non le interessa. Voglio schiaffeggiarla e dirle, guardami, ma sono senza fiato, e ancora digrigno i denti mentre la scopo, ma lei nulla. Penso a prenderla per le spalle e gridarle, guarda, domani andrò a farmi aggiustare questi denti marci sbriciolati e tu non hai idea di cosa significhi tutto ciò dopo anni passati a sentirsi gli occhi saltare in aria come bombe perché il cervello grida vai, hai bisogno di una dose, mentre grumi marroni e putridi ti si accumulano al posto delle gengive e i denti si fratturano e si curvano in angoli contorti.

Ma non voglio aprire bocca e non quindi dico niente, e lei singhiozza papi, le occhiaie cave come grotte che precipitano in un buco nero.

Mugola, strizza gli occhi; non è qui.

Sento che sto cedendo ma continuo a scoparla, provo a cambiare posizione; la alzo contro il muro e poi le vedo – vedo le bruciature di sigarette sotto le sue braccia e i capillari rotti, esplosi come mazzi di buganvillea.

Il cazzo si arrende – inevitabile – ma lei si rianima, non vuole smettere. No no, papi, implora, e comincia a roteare il culo e i fianchi, e allora non so che fare, e lei mi chiama papi, e sta piangendo, lo vedo, ma io sto improvvisamente per venire, e le sue occhiaie e i mazzi di capillari esplosi e le bruciature si allargano come crateri mentre lei strizza gli occhi; non mi guarda, io non so cosa cazzo stia succedendo, ma tutto quello che riesco a pensare è che mentre vengo non devo aprire bocca, perché meno male, domani, andrò a rifarmi i denti.

Un racconto di R.S.

Illustrazione di Alessandra Luciani. 

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