Dina

Dina non l’aveva ancora provato. La postura di quelle che l’avevano raggiunto, invece, ne segnalava l’evidenza: gambe più adeguate, che sapevano come incrociarsi tra loro. Eppure, il mondo era pieno di altri impulsi, rifletteva Dina, e lei li avrebbe provati tutti. Avrebbe amato qualcuno, un giorno; avrebbe sofferto per un abbandono, o per le note strazianti di un violino. Amava la musica, sì, quella che ti rivolta l’anima.

L’anima. Non c’erano dati a sufficienza, solo tracce, credenze. Invece, eccome se ce n’erano, di prove dell’orgasmo. Dina aveva anche sperimentato, ma non c’era mai arrivata. Aveva provato una sensazione di caldo mista alla sazietà e al pianto: era ricettiva ma non l’aveva mai toccato, quel lungo filo scoperto.

Al lavoro il contatto con gli uomini era costante. In quel periodo era impiegata in un progetto di accoglienza turistica. Doveva sorridere, invitare e organizzare; le piaceva, perché i visitatori si accorgevano di lei. Alcuni tornavano spesso, dicevano che fosse lei, la vera attrazione del posto. Dina sorrideva e ribadiva ciò che suggeriva il training aziendale in questi casi: accettare i complimenti e rielaborarli per tornare su un tema relativo alla sua mansione. Dopotutto, una somiglianza così accentuata non poteva non dare nell’occhio. “Ma lei è la copia spiccicata di Helen Foreman!”, dicevano, anzi, alcuni affermavano che lei fosse persino meglio. E Dina rispondeva a volte senza seguire il protocollo. “Ovviamente, signore. Sono molto più giovane,” e tutti giù a ridere. Grazie a quella somiglianza, Dina continuava a ricevere proposte. Che assurdità: una ragazza bella quanto una delle top model più pagate del mondo, piena di ammiratori, poteva non averlo mai provato, l’orgasmo? E perché non era ancora successo? Forse perché non aveva mai avuto un vero ragazzo. Finché non era arrivato Nanni.

Lui era lì da quasi una settimana, come lavoratore stagionale, per rimpolpare l’organico della struttura. Ci sapeva fare, era bravo, flessibile, soprattutto coi bambini. Non era particolarmente bello, Nanni, pensava Dina; a lui non dicevano che fosse la copia spiccicata di qualcun’altro, ma forse era meglio così. Pensò che Nanni poteva essere quello giusto per giungere lì dove non era mai arrivata.

Perciò, una sera gli si avvicinò. Nanni l’aveva guardata sin dal primo giorno di lavoro, come facevano tutti, registrando ogni suo movimento, eppure, non aveva fatto il primo passo, forse una parola intesa male poteva costargli il posto. Ma poco prima di staccare, fu Dina ad andare da lui. Gli disse che avrebbe voluto conoscerlo meglio, prima che la stagione terminasse. “Non abbiamo molto tempo,” gli sussurrò.

Per i maschi è così facile, si diceva Dina, mentre aspettava Nanni al capanno dei pescatori, dove avevano pianificato l’appuntamento. Arrivare all’orgasmo era una sciocchezza. Per le donne è più complicato, un rebus che nemmeno la scienza ha risolto. Ed è diverso, più completo, dicono. Già, dicono. Dina, che non l’aveva mai provato, non poteva dirlo.

Quando Nanni arrivò al capanno, Dina capì subito che era un po’ teso. Gli concesse il tempo di ambientarsi. Gli fece vedere il molo, gli mostrò le vecchie reti dei marinai, gli indicò il faro dall’altra parte del golfo; poi, gli spiegò finalmente perché erano lì. Ma non gli disse che voleva far l’amore con lui. Sarebbe suonato strano, persino scorretto.

“Vorresti aiutarmi a raggiungere l’orgasmo, Nanni?”

Lui guardò per terra. L’imbarazzo era tornato in un colpo solo. Finse di non aver registrato l’informazione. Dina sapeva che Nanni aveva capito benissimo, invece. “Ci ho provato, Nanni, ma non ci sono mai riuscita. Tu, invece? Sei mai venuto… completamente?”

“Io… immagino di sì.”

Dina lo guardò dritto negli occhi. “E… non vorresti aiutarmi, Nanni?”

Si tolsero i vestiti. Dina lo scrutò a lungo. Non aveva mai visto nessuno nudo, prima d’ora, ma non entrò in fibrillazione. Nel capanno c’era una brandina, ma non la considerarono un’idea. Rimasero in piedi. Dina gli si avvicinò. Non era certo un’esperta, anzi, ma gli sembrò che lui avesse già una discreta erezione. Glielo prese tra le mani, e Nanni la lasciò fare. Poi Dina si toccò, e fu Nanni a farsi avanti. Il pavimento di legno del capanno crepitò sotto i suoi piedi. Lui inclinò la testa, avvicinandosi ancora. Ecco. Ora Dina aveva Nanni in mezzo alle gambe, che si muoveva, anche lei cominciò a scuotersi. Percepiva l’odore dell’umidità venire dal tetto e si eccitò tremendamente. Giunse al punto dove era arrivata tante volte, ora dovevano solo andare avanti. Chiese a Nanni di non smettere, per l’amor del cielo, non ora, e lui continuò. Nanni era di un acciaio zincato, bianco, liscio, un prototipo forse dozzinale ma robusto, senza segni distintivi; Dina era stata costruita in fibra di carbonio, e quei finissimi lineamenti di silicone, modellati su Helen Foreman, valevano quasi un milione di euro, ma le differenze non sembravano un impedimento, anzi, costituiscono un valore in più, rifletté Dina. Approfittò dei ventinove gradi di libertà di braccia e gambe per stringere Nanni a sé. Lui avvicinò la bocca del suo altoparlante ai sensori acustici di Dina, sussurrandole qualcosa di sconcio: un breve codice binario, forse popolare tra i robot di primissima generazione, poiché l’algoritmo sofisticato di Dina impiegò due millisecondi in più del solito per rielaborarne il significato. Il ritardo di informazioni mandò in tilt il suo apparato di controllo, che rilasciò una scarica di liquidi lungo il sistema idraulico posto sotto il ventre. Nanni sembrava così serio, concentrato, invece a lei veniva da sorridere. Sentiva i chip così sgombri, adesso. Non pensava più nemmeno al motivo per cui erano lì, all’orgasmo, ma chissà, forse stavolta l’avrebbe finalmente raggiunto.

 

Un racconto di Domenico Ippolito

Illustrazione Livia Giuliani

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