Pompini in autogrill

Il cinque Giugno ricevo una mail da parte da parte della Cazzetti Editore che mi comunica di essere fra i finalisti del concorso di poesie d’amore “Pompini in Autogrill”. Il ventinove dello stesso mese dovrò presentarmi alla Tenuta degli Assorbenti, dove ogni anno si tiene la premiazione, entro e non oltre le due di pomeriggio. Alla fine della suddetta avrà luogo un rinfresco alla modica cifra di venticinque euro. “E, mi raccomando, portate le vostre poesie,” concludono. “Ognuno avrà possibilità di leggere la propria!”

Ne parlo a Lana. Le dico che non riesco a togliermi dalla testa una poesia di Bukowski a proposito dei reading di poesie. “Il conclave dei patiti e delle patite,” così li chiama lui. E per quanto il termine “patito” mi si addica perfettamente, proprio non mi va giù che il vecchio Hank possa vedermi e pensare: “Povero idiota.”

“Se ti preoccupi anche dell’opinione dei morti stai messo male,” mi riprende.

“Non è questo a preoccuparmi,” mento. “Si tratta di coerenza, capisci? Se dico che queste cose sono da coglioni e poi ci vado significa che sono un coglione anche io.”

“Dovresti farti meno pippe mentali. Per carità, non hai mica vinto il Pulitzer. Probabilmente non lo vincerai mai, però perché negarsi la soddisfazione? Sarà pure una soddisfazione piccola ed effimera, ma è pur sempre una soddisfazione. Negarsi una soddisfazione; questa sì, è una cosa da coglioni!”

Ci rifletto su. Disertare (forse) non ha davvero senso. Insomma, mettiamo che questo sia il peggiore degli universi possibili e questa la peggiore versione immaginabile della mia esistenza e io non sia altro che la peggiore versione di me stesso di una potenzialmente infinita schiera di versioni di me e che questo sia il concorso più merdoso per poeti miserabili mai indetto nella storia dello spaziotempo; in ogni caso è impossibile che io venga privato della mia “piccola ed effimera soddisfazione.” C’è amore un po’ per tutti, sulla cattiva strada, canta un altro stronzo che scrive meglio di me. C’è amore e, a quanto pare, c’è anche un pizzico di gloria. “Gloria”. Ecco un termine abusato. Se si parla di gloria a tutti viene in mente il condottiero che guida il proprio esercito verso la conquista, ma mai a nessuno viene in mente il povero stronzo di turno che guida la proprio utilitaria del cazzo verso il mare dopo aver trascorso gli ultimi undici mesi segregato dentro l’ufficio. Eppure ognuno dei due, in quel momento, sente il vento della gloria soffiargli sul viso, carezzarlo come farebbe una madre o un santo. Perché non farmi coccolare anche io? Per orgoglio? L’orgoglio, a conti fatti, ci nega più gloria di quella che ci concede.  E poi: se anche Bukowski fosse lì fuori da qualche parte, in questo momento starebbe di sicuro a gustarsi ben altri spettacoli, tipo uno spogliatoio femminile, una corsa di cavalli o due barboni che si accoltellano in un vicolo. “E andiamoci, dio cane!”

Il giorno seguente prenoto una stanza a cinquanta euro in un agriturismo a due passi da Melezzole, la frazione dov’è sita la Tenuta degli Assorbenti.

 

Arriva il ventinove. Siamo in ritardo, ovviamente.

“Ci toccherà andare alla premiazione senza nemmeno fare una doccia,” borbotta Lana. Tanto basta a scatenare il putiferio. Passiamo i successivi cinquanta minuti alternando silenzi plumbei e urla isteriche. Parcheggio in fondo al piazzale della Tenuta e non ricordo più il motivo per cui stiamo litigando.

“Senti. Facciamola finita con queste stronzate,” le dico. “Oggi è un giorno felice.”

Immediatamente vengo preso d’assalto da una serie di immagini raccapriccianti. Bambini che muoiono di stenti, vecchi lasciati a morire in mezzo al proprio piscio, madri di famiglia violentate con il mitra puntato alla tempia, padri costretti a guardare, inermi. Sento miliardi di grida accavallarsi l’una sull’altra, implorare perdono, misericordia, pietà. Sento una terribile colpa per aver pronunciato quella frase quando, in quel preciso istante, nel mondo, ci sono così tante persone che soffrono atrocemente.

Ne parlo a Lana.

“Sei malato davvero, amore mio.”

Il piazzale della Tenuta degli Assorbenti si stringe a imbuto verso l’ingresso. La ghiaia si tramuta in pietra grigia con una tale nonchalance da rasentare la sfacciataggine. Si viene come involontariamente traghettati all’interno del cortile. Il cortile è la tipica ostentazione di lusso orientaleggiante che indica una totale mancanza di gusto. Una malconcia riproduzione di quello che vorrebbe presentarsi come un giardino zen, ma che ricorda piuttosto il prodotto finale dell’unione fra un ingegnere alcolizzato e quattro litri di sakè. La struttura, se possibile, fa ancora più ribrezzo. Evidentemente il suddetto ingegnere sbronzo deve aver pensato che bastasse aggiungere qualche ghirigoro in terracotta di ottava mano e un paio di rampicanti finti per dare a un capannone industriale di cemento armato quell’aspetto rustico che piace tanto agli yankee.

Restiamo sotto il sole per circa mezz’ora, poi ci dicono che la premiazione avrà luogo nella Sala Fiche Mosce, che si trova al terzo piano interrato, sotto il parcheggio coperto. Scendiamo le scale (l’ascensore è in manutenzione) e, per la prima volta, ho modo di osservare gli altri partecipanti. Il più giovane viene accompagnato da figli e nipoti. Il più vecchio da tre badanti e un’infermiera che gli misura la pressione ogni volta che tossisce.

“Salve a tutti, poeti Pompinari,” esclama il presentatore (un tizio dall’aspetto olocaustiano) non appena ci siamo accomodati sulle sedie pieghevoli gentilmente disposte a cazzo di cane in Sala. “Il Signor Cazzetti, purtroppo, non verrà a farci compagnia, quest’oggi. Io sono un coglione qualsiasi che ha spedito qui per darvi il contentino.”

Segue messaggio promozionale della Cazzetti Editore. Concorsi di questo genere, a quanto pare, si svolgono periodicamente in tutta Italia e offrono a ognuno dei vincitori la possibilità di pubblicare la propria raccolta con la Cazzetti Editore in cambio dell’acquisto di appena millesettecento copie della stessa. Diciassette euro a copia.

“Bene. Ora che avete tutto chiaro, cominciamo. Chi vuole aprire le danze al microfono?”

Segue lettura di centodiciassette componimenti poetici. Il termine “Sentimento”, che si piazza, stranamente, solo al settimo posto, viene ripetuto quattrocentosei volte. Seguono “vita” (cinquecentocinquantuno),“bocca” (seicentoquarantaquattro) e “fiore” (seicentoventi). Medaglia di bronzo a “occhi” con settecentonovantacinque. Sul secondo gradino del podio troneggia “cuore” con ottocentotrentaquattro. Il termine “Amore” viene ripetuto novecentottantadue volte.

Durante la lettura ci sono state ben diciassette interruzioni dovute a: guasto tecnico, lunghezza eccessiva del componimento, blocco emotivo del partecipante, brusio, improvviso malore.

Per almeno tre volte sono stato tentato di alzarmi e andare a leggere. Per tre volte sono rimasto seduto.

“Grazie a tutti voi,” conclude l’Olocaustiano, strappando di mano il microfono a un signore di novantaquattro anni. “Ora annunceremo i vincitori.”

A queste parole, una donna sulla sessantina (che, per comodità, chiameremo “Capelli Unti”) comincia a sbraitare contro il presentatore. Non ha potuto leggere il suo componimento, mentre sulla mail era specificato che a TUTTI sarebbe stata concessa questa opportunità.

Il presentatore, dall’alto della sua professionalità, mantiene la stessa calma che mantengo io quando non riesco a trovare qualcosa in camera dopo che mia nonna ha riordinato, le si scaglia contro con il plauso del pubblico e della giuria tutta. Capelli Unti, in lacrime, esce dalla sala promettendo ripercussioni legali.  Buona, questa. Tutti ridono. Sipario.

“Sembra una seduta della Camera…”

“Di che?”

“Niente. Esco a fumare.”

“E se ti premiano?”

“Se mi premiano digli che sono fuori a fumare.”

 

Quando rientro vedo Capelli Unti in fondo al corridoio. È piegata in avanti e si tiene la pancia come se cercasse di non pisciarsi addosso. Le vado incontro, preoccupato, e in breve realizzo che non sta avendo un attacco di incontinenza. Sta solo contorcendosi meglio che le riesce per sbirciare dal buco della serratura.  Vedere una donna della sua età che sbircia dal buco della serratura come farebbe una scolaretta delle elementari fa uno strano effetto. Al “ma che cazzo fa?” che prenderebbe posto nella mente di ognuno di noi in un primo momento, si sostituisce repentinamente un secondo quesito: “Ma perché cazzo lo fa?”

 

Eccolo, il nodo.

Come è vero che l’orgoglio ci nega più gloria di quella che ci concede, è altrettanto vero il contrario. Se si va in cerca di gloria, bisogna perdere un po’ d’orgoglio per strada. Se si segue l’orgoglio, spesso si vede la gloria scivolare lentamente via. Capelli Unti ne è la prova. E lo sono anche io. Sempre detto che questo è un mestiere infame, cazzo. Sempre detto che questo è un mestiere che ha poco a che fare con il talento, la determinazione, la costanza, la passione. Questo mestiere, (questo mestiere nobile, come dicono alcuni) non è diverso da tutti gli altri mestieri che esistono in questo paese e, immagino, nella maggior parte dei paesi del mondo. Pensateci un attimo: quanti dei politici che conoscete sono rimasti accucciati a guardare dal buco della serratura per anni, a volte decenni, nutriti dalla speranza di poter, un giorno, fare irruzione e cominciare a sbraitare sventolando i genitali come farebbe un mandrillo? Non è questo, di fatto, il mestiere di un politico? Non è questo, di fatto, il mestiere d’uno scrittore? Non è questo, di fatto, un mestiere qualunque? Porca troia, alcuni ci muoiono dietro quella porta di merda! A guardare da dietro la serratura, indecisi se seguire l’orgoglio e fallire o inseguire la gloria e perdersi.

Forse è davvero la versione peggiore di questa esistenza.

 

Ne parlo a Lana.

“Sai…non è un dramma se non ti hanno premiato, amore mio.”

Un racconto di Massimiliano Maggi

Illustrazione di Nora

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