‘MMERICANA

Il fango, sulle scarpe da corsa, minacciava di divorare il pavimento, annullando nello spazio di una camminata igiene, protocolli e profilassi.

Le suole lo avevano masticato, vissuto e triturato quel fango, digerito nelle intercapedini delle loro strutture, incrostato e rappreso in una massa nuova che allargava famiglie sempre crescenti e spore sempre nuove e passi sempre occupati nel chilometraggio previsto prima delle operazioni mattutine.

L’imprevisto era stato nell’arresto: non cardiaco, non militare.

Camillo Zanzi si era semplicemente fermato, ruotando di centottanta e riprendendo a piede costante verso una clinica ospedaliera che lo avrebbe aspettato in altri orari vestiti atteggiamenti.

La deflagrazione batterica del pavimento è cronaca già documentata.

Le urla di un’ausiliaria Cenerentola ospedaliera sono episodio immaginabile.

Il dirigersi della fanghiglia verso la stanza 58 una sorpresa, giacché Melo Resta, là dentro, si aspettava di morire, mica di vedersi un chirurgo sudato in tenuta da podista.

Dottore, cche peccaso s’è ssbajato?

Non lo perdeva il sorriso Carmelo, nemmeno ora che stava a scivolarsela dall’altra parte dello steccato e che ogni giorno poteva essere buono al tracollo a carcinoma montante a moglie piangente a famiglia sperante in una prodigiosa cura americana, capace di ritrasmettere il mescolamento stanziale e di bloccare lo sviluppo delle cellule aggressive – la raccontavano sempre così, ‘sta maledetta stronzata, quando si era ancora nel letto d’ospedale ma già a trattare con la mente il saldo delle pompe funebri, nella speranza di strapparci un servizio onesto e un prezzo dignitoso.

Il resto toccava a Millo, al dottor Zanzi – come lo conoscevano qui – e a quel gruppo di anestesisti, infermieri e comparse di vario genere chiamate ad instillare saldi bottiglioni di fisiologica nelle vene del paziente scucendo e spizzicando qua e là a mostrare fiere e illusorie cicatrici. Trattamento riservato a tutti, sia chiaro, ché una speranza – per quanto vuota e bugiarda – non la si doveva negare a nessuno. Ma non a Melo – aveva pensato Camillo marciante e accumulante fanghiglia da distribuirsi postuma su intercapedini sanitarie – che in quel reparto ci Resta da fin troppo tempo, a fiero cognome incrociante l’indicativo presente senza cedere alla resa di imperfetti e trapassati.

Da qui l’andare in ospedale, il contaminarne la superficie, l’inimicarsi Cenerentola e il trascinarsi nella 58.

Dottore cche peccaso s’è sbajato? L’opperazione è alle disciotto.

La quinta elementare di Melo sgrammaticava le sorti di un presunto idiota che aveva scambiato calzoncini e maglietta con un camice bianco: difficile, tra i due, definire il malato.

Oggi proviamo la cura’mmmericana, non è vero dottò?

Millo non ce l’aveva il cuore di rispondere: non oggi, non a Melo, non così incartavetrato di sudore e dispiaceri per ciò che doveva tristemente accadere.

Hai fame? –  decisamente una domanda inaspettata.

Ai mmeridionali a fame n’passa mai – decisamente una risposta da aspettarsi.

Una corsa a ritroso, un rinnovare la flora batterica, un inserviente intenzionata ad esercitare altrimenti il bastone delle pulizie, uno sparpagliarsi marmellato di terra umida.

Il ristorante di fronte, poi il supermercato, poi l’enoteca. Cartoni pieni, da trascinare a fatica. Un riguadagnare le scale, uno scavalcare le bestemmie della Cenerentola che stavolta si sfilava la scarpetta per lanciarla a discapito di principi e carrozze.

Il chiudersi privato della 58. Un banchetto imbastito di fortuna.

Nessun taglio, nessuna sutura, nessuna fisiologica, ma vino che scorre e scorre e scorre e sudore che asciuga e cibo assaporato alla meglio in difficoltoso ma riuscito deglutire. E Carmelo che mangia e chiacchera e ricorda senza più pianti né tristezze né trattative da chiudersi poi in sedi separate. E il camice che questa volta non serve e gli anestesisti che verranno a vuoto nel pomeriggio, ché a profanarlo, a Melo, ci hanno pensato già Dio e la vita.

Dottò, è chest ‘a cura ‘mmericana?

Una specie, diciamo così.

E mi dica dottò, mi salverà?

Temo di no – una resa.

… Ma a mme me so’ piaciuti sempre st’ammericani,, che fanno festa sempre, ch’a mmorì c’è sempre tempo, a ffa festa sempre meno.

E la voce resta ferma, e Carmelo non si scompone, con le stoviglie sporche adagiate sul letto e i contenimenti, le rassicurazioni e i saluti che sgocciolano dalla pazienza della flebo. Il silenzio viene progressivo, le parole diventano sguardi, l’attesa è a quattro mani e i camici non valgono troppo più di una tuta. Il sole dura troppo poco e la sera scende bugiarda a confondere gli eterni coi riposi. Il rantolare è una questione progressiva, il mancare della voce, il comporsi del presepe dei parenti e le parole di circostanza che cinquemila battute è troppo poco per spiegare che i buoni oggi non sono salvi e che gli eroi, anche i più buoni, non sempre riescono a salvare gli altri buoni.

Lo spirare è un scivolare a ritroso per le scale, un inasprirsi della stanza, un lacrimare, con Millo che non vuole più correre, con Melo che ha appena smesso, con altri che là fuori continuano stremati sperando nella salvezza d’una cura’mmericana.

Se c’è ancora fango, a terra, non importa più a nessuno

Un racconto di Graziano Gala

Illustrazione di Alessia Arti

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