Volevo un cancro al seno

La mamma così aveva detto, che da quando erano finite le guerre i bambini non erano più gli stessi. “Sai, topolina. Quando i nonni erano piccoli, c’erano dei poracci che si beccavano anche sei, sette fobie. Quand’ero piccola io invece, si faceva fatica a trovarne uno, dico uno, che ne avesse anche solo una, di fobia.” Così nessuno cresceva più, aveva detto, perché per crescere bisogna imparare a superare le paure, ma loro non avevano più paura di niente. E siccome le guerre non si potevano inventare così all’improvviso, qualcuno aveva pensato bene ad un altro sistema. Ora, grazie a lui, è tutto diverso. Ognuno a sette anni si pesca la sua fobia e quella si tiene in santa pace.

Quando è stato il mio turno, però, quello scemo di un dottore non me l’ha fatto vedere il biglietto che ho pescato! Lui pensava di fare il furbacchione, ma io l’avevo capito che cos’avevo preso dalla busta con tutti quei millemila bigliettini, eh sì che l’avevo capito. Perché quando la mamma gli ha chiesto “dice che sarà facile farle venire questa fobia, dottore?” lui ha risposto: “basta che segua le mie istruzioni passo passo, chè se la bambina non se la prende son guai. Ma non si preoccupi, signora. In fondo, è solo una claustrofobia.”

E infatti quando i miei genitori mi hanno portato alla fiera del ricamo a me sembrava un po’ strano, perché al babbo del ricamo non è mai interessato niente e lui da casa prima delle nove non si muove manco per sogno a meno che si tratti di computer o di barche, e anche io a letto sarei rimasta volentieri, ma la mamma aveva detto che ci sarebbero stati anche i ricami della zia Chicca e allora ci sono andata per forza, anche se i ricami della zia Chicca io non li ho visti.

C’erano tante nonne e tante zie alla fiera del ricamo. A loro ricamare piace tanto, lo imparano e lo insegnano al circolo e stanno sempre all’uncinetto anche davanti alla tv. Alcune stavano uscendo dalla chiesa e altre si spingevano da una bancarella all’altra, e i loro grossi sederoni mi arrivavano dritti in faccia. Noi eravamo vicino alla bancarella preferita delle signore, dove c’erano cuscini e copriletto con la Madonna e il Bambin Gesù. La mamma e il babbo mi tenevano per mano e anche quello era strano, perché il babbo per mano non mi tiene mai, di solito mi cammina sempre tre metri avanti, e le poche volte che gli cammino io davanti lui mi pesta sempre le scarpe, apposta. Comunque, ad un certo punto hanno mollato la presa e mi sono ritrovata lì da sola. Ma io l’avevo visto, il babbo, se ne stava al telefono e camminava avanti e indietro per le scale della chiesa. La mamma invece era lì seduta, a guardare l’orologio e a ripassare il suo quadernetto. Ed io ero contenta che se ne fossero andati, perché poco più in là c’era Umberto del Gruppo dei Gialli di Catechismo e lui i genitori per mano non li tiene. Così me ne sono stata lì, bella e buona, a vedere i sederoni tastare il Bambin Gesù. Neanche il tempo di respirare che i miei erano già tornati a chiedermi dov’ero finita e a dire che mi avevano cercato dappertutto e che non dovevo farlo mai più. “Ti sei spaventata, topina, eh?”. “Io sto benone”, gli ho detto. Ancora non avevo capito che così non si doveva rispondere.

Mi ci è voluto un bel po’. Non l’ho capito quando mi hanno abbandonato in macchina per ore e ore e nemmeno quando mi hanno chiuso dentro l’armadio. Il babbo aveva detto che l’aveva fatto perché lasciavo sempre la luce accesa ma io l’avevo capito che era una scusa bella e buona. Quello che non avevo capito, invece, e che ho capito solo dentro alla vecchia valigia della zia Chicca, è che loro volevano farmi paura.

Quella valigia puzzava di chiesa, e poi mi stavo annoiando a morte lì dentro. Così ho fatto partire la mia sirena, come dice sempre il babbo: ho strillato più forte che potevo. E ha funzionato. La mamma mi ha subito liberata e io ho continuato e continuato, e nessuno mi diceva Clara-fai-piano-perché-il-piccolo-Elio-dorme e allora ho strillato ancora e ancora, finché ho sentito la gola cadermi giù nello stomaco. Così il babbo mi ha detto: “Clara, tu hai la claustrofobia. Sei pronta per andare alla Preparatory Technical School of Dicomano”.

Quella scuola è una palla. Non fanno altro che chiedermi della mia malattia. E non è giusto. Non è giusto perché Marta ha pescato la cinofobia e sta sempre a giocare coi cani e Filiberto invece l’aviofobia e l’hanno fatto andare in elicottero addirittura, e perfino Nicola che ha pescato il disturbo autistico viene sempre applaudito da tutti! Mentre io della mia finta claustrofobia non me ne faccio proprio niente, al massimo mi mandano a fare la coda alla mensa o mi mandano su e giù per l’ascensore, per l’ascensore dico! E quando stiamo in cerchio gli altri se ne stanno lì a piagnucolare e a dire quanto è difficile tirare una palla al cagnolino o vedere le montagne dall’alto e quando tocca a me non ho proprio niente da dire, perché a me non fanno paura né mense né ascensori, mi fanno solo schifo. Perché la claustrofobia è una malattia da schifo! Ecco, l’ho detto!

E mentre gli altri sono passati in seconda, nella mia pagella hanno scritto che le mie paure sono ancora nella fase fredda e che non mi applico abbastanza, e che quindi consigliano di rimanere in prima elementare un altro anno. E i miei genitori gli danno pure retta!

Io a Babbo Natale avevo chiesto una cosa, niente di che. Non gli ho chiesto la dislessia o le balbuzie, quello no. Gli ho solo chiesto un cancro al seno. Anche piccolo, chi se ne importa. Gli ho detto che così almeno Giulia e Adele avrebbero smesso di prendermi in giro, perché quelle due dicono sempre che la mia fobia non vale un bel nulla. Con il cancro al seno mi avrebbero invidiato tutti. Ma niente! Ha risposto che purtroppo il cancro al seno i folletti non ce l’avevano più e mi ha scritto: “un cancro ai testicoli va bene lo stesso?”. Come se fossi scema! Io lo so che cosa sono quelli! Mamma ha detto di portar pazienza, che Babbo Natale a sette anni deve aver pescato la demenza senile.

Un racconto di Sofia Casini

Illustrazione di Alessia Arti

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