Stereotipi

Il teorema di de l’Hôpital non aveva funzionato e non sapeva come salvare la situazione.

La funzione era intricata, un rapporto tra polinomi con esponenti spaventosi, e fare la derivata non aveva che complicato la situazione. Si passò le mani sudate sui jeans, respirò profondamente e impugnò di nuovo la penna.

Quell’esercizio era uno dei più facili, eppure lei era in crisi. Per il primo esame del primo anno! Come le era venuto in mente di iscriversi a Matematica? Quel mondo era per lei incomprensibile, inutile che si facesse scoppiare la testa in un treno che andava nella direzione opposta a quella del suo sedile.

Fissò di nuovo il limite e le sembrò che tutte quelle x la prendessero in giro dalla superficie del foglio, dritte da un mondo a cui lei non poteva avere accesso.

Reclinò la testa all’indietro, sconfitta.

“Sembra noioso”, disse la sua vicina di posto.

Si voltò a guardarla: era biondissima, truccata con vivaci colori rosa, indossava un vestito corto e nero e dei collant trasparenti, profumava di zucchero e canditi e adesso la fissava con l’inconfondibile espressione speranzosa di chi ha voglia di chiacchierare. Le persone profumate, belle e dall’aria sicura di sé la mettevano a disagio. Si accucciò contro la parete del vagone, più lontana che poteva dalla sconosciuta.

“È molto interessante”, rispose. Si pentì subito dopo della risposta da secchiona, ma nonostante il tono cordiale aveva percepito il commento dell’altra come una critica e aveva sentito il bisogno di stabilire i confini tra le loro zone di competenza. Tuttavia, doveva ammettere che era difficile darle torto. Era uno stupido esercizio che avrebbe dovuto risolvere senza pensarci troppo, applicando delle semplici regole. Lei non lo avrebbe capito, probabilmente la cosa che riteneva più interessante al mondo era limarsi le unghie.

“Voglio dire, non è l’esercizio ad essere interessante” puntualizzò “ma le cose che ti permette di fare. Saper fare questi semplici esercizi serve a risolvere problemi molto più complicati e pragmatici. Il cellulare che hai in tasca, ad esempio, non esisterebbe neanche se qualcuno non avesse deciso di fare stupidi esercizi di analisi matematica.”

Il proprio discorso la rinfrancò. Sarebbe riuscita a risolvere il problema e a ritrovare la fiducia in se stessa, l’esame sarebbe stato un successo e la sua carriera era ancora agli esordi. Nonostante le sue difficoltà iniziali, lei valeva molto più di tante altre persone, ad esempio quella tipa dall’aria svampita. La attendeva un futuro da scienziata e accademica, mentre a giudicare dalla lunghezza della sua gonna la sua vicina puntava solo a trovare un uomo molto ricco che le regalasse i trucchi più costosi sul mercato.

“Mi sembra un po’ azzardato come esempio”, rispose però l’altra, tirando fuori il suo cellulare. Osservò lo schermo nero per un istante e poi rimase a guardarsi le ginocchia nude, il labbro inferiore che tremava appena in un’espressione delusa.

Si sentì in colpa per la sua risposta secca. Forse la ragazza voleva davvero fare conversazione e aveva trovato un pretesto qualsiasi per introdurre un discorso, forse avrebbe dovuto rispondere come una persona normale e confessare che quegli esercizi annoiavano anche lei.

“Hai ragione, l’ho un po’ sparata”, ammise “A dir la verità sono nervosa perché questo esercizio è difficile e non riesco a finirlo.”

La ragazza bionda alzò lo sguardo e le sorrise – un largo sorriso fucsia e gentile.

“Se vuoi ti do una mano”, disse.

“Tu? Ma sono esercizi di livello universitario, non vedo come…” provò a protestare, ma prima che potesse finire la frase l’altra aveva già in mano il foglio con la traccia del problema e i suoi maldestri tentativi di risoluzione.

“In effetti è un esercizio insidioso, non funziona con nessun teorema”, disse, mentre il suo sguardo correva lungo il foglio. “Bisogna applicare qualche trucchetto algebrico. Porti fuori la x qui e lì e si semplifica. A questo punto aggiungi e sottrai uno, guarda…”

La ragazza scriveva velocemente e un paio di minuti dopo le restituì il block notes con il limite risolto. Lei aprì la bocca per dire qualcosa – forse grazie, forse come ti permetti, non era ancora sicura dei suoi sentimenti a riguardo, ma prima che potesse procedere, l’altra aveva già ripreso a parlare.

“Quel tipo di esercizio è pensato solo per mettere in difficoltà gli studenti. È una delle ragioni per cui la matematica non mi piace più: bisogna continuamente dimostrare di sapere cose e di rado invece si può produrre.”

Guardò di nuovo il limite che la vicina aveva risolto per lei: era scritto in soli tre passaggi, senza cancellature.

“Prima studiavi matematica?”

Le guance della ragazza si arrossarono nonostante gli strati di fondotinta.

“È la mia prima laurea. Sono stati tre anni appassionanti, ma alla fine sapevo che non era la mia strada. Poi mi sono dedicata alla chimica, ma non ho voluto continuare nel mondo della ricerca. Insomma, a ventiquattro anni mi sembrava il momento di iniziare a fare qualcosa, non trovi?”

Annuì, troppo impegnata a chiedersi come quella ragazza potesse avere più di ventiquattro anni per proferire parola. Il treno si avvicinava alla stazione successiva e aveva iniziato a rallentare: la sua vicina si alzò e tirò giù il suo zaino dal bagagliaio.

“Così ho cominciato la mia azienda di cosmetici”, proseguì. “È stato un azzardo ma sta andando bene e ora so che è la cosa giusta per me.” Le sorrise. “È solo la mia esperienza, chiaro. Per te forse la matematica è la strada perfetta, si vede da come ne parli.”

“Grazie”, mormorò lei, ma l’altra si era già voltata per scendere dal treno. Sul suo zainetto campeggiava il logo di una nuova marca di cosmetici che era certa di aver già sentito nominare. Poi ricordò: era quella dell’unico rossetto che avesse mai comprato.

 

 

Un racconto di Loreta Minutilli

Illustrazione di Verin

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