Fenicotteri gonfiabili

Lei, a parte il seno rifatto in eccesso e quegli zigomi così chirurgici, non sarebbe da buttare via; lui invece ha tutta l’aria di un coglione che ascolta troppo reggaeton.

Questo pensa Ada della coppia che da due giorni prova a rimorchiarla.

I due, mentre attendono l’avvio della fase di risveglio muscolare, lasciano galleggiare le loro labbra socchiuse sopra sguardi vacui e morbosi: cercano Ada e si sentono perversi.

Sono abituali frequentatori di dark room, nelle quali amano farsi chiamare Touch e Me.

La ragazza ricambia un paio di volte, poi si distrae. Rimane sprofondata dentro un fenicottero gonfiabile rosa piazzato un po’ prima della battigia.

La coppia invece occupa il centro di uno schieramento di soggetti disallineati e semi-immersi nell’acqua. Il gruppo comprende: un pugno di bambini, tre coppie adulte, adolescenti di sesso diverso, quattro donne sui sessanta e un vecchio. Tre bambine parlano in tedesco, una sessantenne è francese.

L’animatore si gira e fa un cenno al bagnino appollaiato in cima alla sua postazione. Il bagnino rimanda di sponda il comando a un addetto.

Sull’area dettano ordine due composizioni geometriche e marziali fatte di ombrelloni gialli, sdraio bianche e materassini a strisce orizzontali.

Partono dei bassi, monocordi e a martello. In superficie balla, remixato, un tormentone estivo.

L’animatore invita Ada, con un gesto della mano, a unirsi al gruppo. Lei scuote la testa e sillaba lenta: «Preferisco guardare».

 

L’animatrice è dentro il ruolo, come se ci credesse davvero. Il collega le va dietro; un automa annoiato.

Braccio destro in avanti, poi il sinistro. Dritti, rigidi, paralleli. Ora piegarsi sulle ginocchia, andare giù, giù, ancora giù e, infine, saltare su. Come una molla.

Ricomporsi. Ripetere. Ma con più ritmo.

I due animatori indossano tute da triathlon, corte e smanicate. Lui nera; lei fucsia sfumato.

Già alla terza ripetuta la sincronia comincia a sfaldarsi. I più anziani eseguono movimenti abbozzati, i bambini introducono elementi anarchici, le coppie sniffano il patetico. L’animatrice se ne fotte e va avanti.

La sessantenne francese ha addosso l’angoscia dei fuori posto e il taglio di un vecchio cesareo in vista. Ada la nota. Ha scambiato con lei qualche battuta la sera prima e si è chiesta cosa spinga un essere umano a salire su un volo Lione – Milano, attendere tre ore in aeroporto, volare verso Catania, compiacere un’addetta all’accoglienza e il suo sorriso dimenticato, farsi stipare dentro una monovolume a nove posti e consegnarsi per una settimana a una struttura che somministra divertimento al gusto di accanimento terapeutico.

 

Gli animatori procedono a tappe forzate, ora chiedono ai partecipanti di colpire l’aria come se davanti avessero un pungiball. I bambini si esaltano, gli adulti mimano, gli adolescenti si spingono, il vecchio si smarrisce.

La francese esce dall’acqua, passa a pochi centimetri dal fenicottero rosa gonfiabile, sfiora senza volerlo il piede di Ada, la giovane le fissa la cicatrice, la donna osserva la pochette trasparente che l’altra tiene nella sua mano. S’intravedono un astuccio, un foglio piegato e una matita.

«Ciao, Ada…» dice la donna. La ragazza sposta lo sguardo sul nulla e risponde: «Ciao, Claire».

La francese prosegue.

 

La sigla dell’animazione contiene otto volte la parola “felicità”, Ada lo annota sul retro di un foglio, in coda a un elenco già stilato:

padre;

novantotto giorni dalla morte di mia madre;

non ha parlato col mio analista;

non capisce;

ha comprato un “pacchetto distrazione” per la figlia sedicenne;

la figlia strana che scrive poesie;

che da quattro anni si procura tagli all’interno delle cosce;

che si lascia scopare dai tossici al parco;

la figlia che conosce tre lingue;

la figlia che non si diverte.

 

Suo padre sta parlando col bagnino, è in ansia, è in sovrappeso, ha cinquant’anni, due tatuaggi e un costume rosso senza segreti. È proprietario di tre autosaloni nel bergamasco.

Il bagnino indica in direzione del fenicottero. Il padre lo inquadra, si avvia. Ada tira fuori dall’astuccio una lametta, con questa si accarezza la parte superiore del seno. Aumenta la pressione, la lametta s’incaglia. Si flette.

Il padre avanza pesante e avvilito. È nei paraggi, trova ostile il becco bianco, e nero in punta, del fenicottero. Ansima: «Ada?!». La figlia gira la testa, fissa il genitore, con la lametta simula lo sgozzamento. L’oggetto rilascia un riverbero. Il padre è una mescola di cemento e sgomento.

Ada abbassa il braccio e con un colpo secco e prolungato squarcia il gonfiabile. Il fenicottero si svuota scomposto, Ada è in preda a un riso convulso e isterico, batte i pugni contro la sabbia.

Un foglio viene allontanato da una folata di vento. Segue una bolla di tempo.

Il collo e la testa del fenicottero si sono afflosciati sopra la schiena di Ada.

 

La luna è una falce; sulla terrazza che s’affaccia sul mare un crooner attempato, di Bari, va di mestiere. A uno dei tavoli posti al confine della pista da ballo Touch e Me spulciano un foglio:

Io gioco col geco.

Lo nego.

Mi guardano.

Lo sego.

Mi ignorano.

E io,

per chiudere,

lo annego.

 

La guerra è finita.

Nessun testamento

dal mio ego.

 

Touch si rivolge alla moglie e dice: «Boooh…».

Lei gira tra le dita un ombrellino di carta e chiede: «Balliamo?».

 

Un racconto di Giovanni Buttitta

Illustrazione di Marco De Simone

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