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I bambini non sanno niente

Attorno a casa di zia Lidia ci sono dieci case con dentro altri bambini parcheggiati qui per l’estate. Proprio come me. A me è andata bene perché la maggior parte sta dai nonni. Mangiano minestrone bollente per pranzo e hanno la ritirata prima che scende il buio. Così dicono. Io non ho capito bene il buio da dove scende, cerco di stare attento e di spiare, ma di colpo quello è già sceso e si allarga sull’asfalto, sotto alle scarpe che corrono e alle automobili parcheggiate tutte composte lungo i muretti dei giardini.

A zia Lidia il cibo non interessa per niente. Ha comprato cento confezioni di pane in cassetta e mi preparo da solo toast che sanno di polvere e mosche morte grigliate. Il tostapane non lo pulisce mai, dice che così è bello che pronto. Mamma urlerebbe come una matta.

I miei amici di qua, che sono sette, parlano sempre di calcio e di Zia Lidia. Quando ci ritroviamo sdraiati sul tetto della cisterna dell’acqua, sotto al fico, mi dicono che è bona. Io dico pure che è bona, anche se non so che cosa significa e mi viene in mente solo che il suo odore è buono, perché è uguale identico spiccicato a quello di mamma. Che è sua sorella, e forse è normale avere lo stesso odore di tuo fratello, ma io non posso saperlo perché sono figlio unico. Allora una volta ho provato ad annusare Carlo e Giorgio che sono gemelli. Carlo mi ha spinto lontano e mi ha chiesto: «Ma sei frocio?». Mi veniva un po’ da piangere perché mi ero sbucciato un gomito, ma ho resistito perché zia Lidia quando frigno ché non mi voglio fare la doccia la sera mi dice che sembro il bimbo piccolo di quando ero piccolo e io invece voglio essere grande, come loro. Ho detto di no, che venivo da Atella, che è un paesello vicino Potenza e forse per questo non lo conoscevano. Hanno riso tanto e io ero felice perché eravamo di nuovo tutti amici.

«Se non sei frocio ce lo devi dimostrare» aveva detto Paolo. È il più cattivo, cattura le lucertole prendendole al cappio con dei pezzi di spago che tiene sempre in tasca, le porta a spasso come si fa con i cani e quando si secca le fa girare a mulinello nell’aria e le lancia lontano.

«E come faccio?»

«Te lo diciamo domani.»

A cena è venuto Salvo, l’amico di zia Lidia. Viene ogni sera, è divertente, dice che l’insalata di pomodori è ottima e anche il pane e fa tanti complimenti come se zia Lidia cucinasse davvero. Dopo cena gioca un po’ con me in veranda. Una volta ha catturato una lucciola e mi ha detto che alla fine la parte bella che luccica e brilla è solo il culo di un insetto brutto. Poi zia Lidia mi dice che è tardi e mi spedisce in camera perché loro devono parlare di cose da grandi.

Quella notte non ho chiuso occhio. Pensavo a Paolo e alla prova che mi aspettava. Non sono bravissimo nelle prove. A scuola, il professore di ginnastica, per farmi fare la capriola, mi dà una spintarella sul sedere, e io penso che meno male che non ho il culo come le lucciole che appena lo tocchi poi non brilla più.

Il giorno dopo sono arrivato al fico che ancora non c’era nessuno. I toast mi lasciano sempre una piccola fame, come se nello stomaco ce ne entrassero altri cento o mille. Allora mi sono messo in piedi sul tetto e ho iniziato a mangiare la polpa morbida di quei frutti neri. Quando sono arrivati gli altri avevo le mani e la bocca appiccicose.

«Ecco qua, tieni» ha detto Paolo allungandomi una vecchia macchinetta di quelle per le Polaroid. Gli altri se ne stavano in cerchio come quando facciamo fare le gare alle lumache scommettendoci tutti i soldi della paghetta settimanale. Io perdo sempre.

«Se non sei frocio, devi scattare una foto all’orgasmo.»

«E chi è?», ho sperato che abitasse nella mia stessa strada perché zia Lidia non vuole che con la bici mi allontano troppo.

«Ritardato!» è intervenuto Michele, che è un poco meno cattivo di Paolo. «Quando tua zia e il suo amico ti dicono di andare a dormire e rimangono soli, tu aspetti dieci minuti, li raggiungi, e senza farti vedere scatti una foto.»

Non ho detto né sì né no perché stavo pensando che, in fondo, era una prova facile scattare una fotografia. Mi volevano bene.

«Sei capace a scattare una fotografia senza farti vedere, sì?»

 

La serata è scivolata via come sempre. Zia Lidia aveva scongelato i fagiolini, quelli tondi. Salvo ha detto che erano buonissimi. «Mai assaggiati fagiolini più buoni» ha detto. Mentre zia lavava i piatti, lui mi ha insegnato a parare i rigori. All’inizio faceva sempre gol, ma verso la fine sono diventato forte e gliele paravo tutte. Poi è arrivato il momento. Ho finto di salire su in camera e invece sono rimasto nascosto sulle scale. Subito zia Lidia e Salvo si sono tolti i vestiti a vicenda. Zia lo dice sempre: «Caldo infame!»

Io ho aspettato dieci minuti contati di orologio come mi aveva detto Michele, da giù arrivavano delle risate piccole simili a quando si inizia nascondino e ognuno trova il suo nascondiglio perfetto. Ho sceso qualche gradino, in modo da inquadrare meglio. Zia Lidia se ne stava a quattro zampe poggiata contro la spalliera del divano, Salvo era dietro di lei e si muoveva su e giù. Volevo dirgli di stare fermi che sennò orgasmo veniva mosso e io non superavo la prova e i miei amici non mi volevano più con loro sul tetto della cisterna.

Ma poi ho deciso che stavolta dovevo fare la capriola senza calcetto, da solo. Allora ho premuto il pulsante, la Polaroid ha sputato fuori un quadrato nero. Me ne sono tornato in camera e ho iniziato ad agitare la foto, tutto contento. Agitavo e soffiavo. Volevo che si asciugasse in fretta perché ero curioso di vedere com’era venuto orgasmo. Ma quando è comparsa l’immagine mi sono accorto che era tutta mossa. La prossima volta gli dico di restare fermi, di sicuro.

Un racconto di Sara Maria Serafini

Illustrazione di Marco Pellino

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