Sacrificio

Non uccidere. Non rubare. Non nominare il nome di Dio invano. Non dire falsa testimonianza. Non commettere atti impuri.
Ama il prossimo tuo come te stesso. E ricorda di santificare le feste.

 

È Natale e tu stai andando in Chiesa. Non è che abbia proprio voglia di andarci, ma ci vai da sempre. Non smetterai certo adesso. Credo in ciò che voglio, pensi. E così vai. Il sole è abbastanza pallido, eppure lo percepisci quel tanto che basta da farti pensare che è una bella giornata. Metti gli occhiali da sole, per posa, non per necessità e arrivi in Chiesa. Ti metti dove ti pare: non è che ci sia chissà quanta gente, a Messa. Per i più Natale vuol dire grandi tavolate. Cosa c’entra la chiesa? Niente. Tutto. Quella storia lì è finita con una tavolata. Non bene, a dire il vero. Come sei arrivato a pensare all’ultima cena? Non te lo ricordi. Allora pensi al monologo interiore. Se fossi in grado di fare una cosa del genere forse non saresti lo scrittore spiantato che sei. Forse qualcuno ti farebbe un contratto. Ma non hai voglia di pensarci. È Natale, Cristo è nato. Santificalo. Al momento dello scambio della pace ti senti in difetto, guardi la tua mano. Quella stessa con cui fai così tante altre cose. Come potrebbe dar pace a qualcuno? La vecchietta accanto a te è più veloce dei tuoi pensieri, ti guarda, sorride. Sei in Chiesa, devi essere per forza un bravo ragazzo. Quindi sorride. Troppo. “La pace sia con te, si è sacrificato per questo”. Stiracchi le labbra anche tu, vuoi essere gentile. Quando sei diventato così ipocrita? Scacci questo pensiero: vuoi andar via. Nella folla, dopo la comunione, intravedi qualche faccia amica. Uno sguardo, due. I tuoi occhi li cercano ma loro non sanno, non capiscono. Aspetti che arrivino, che ti parlino. “Che strano odore, che hai fatto?”. Niente, dici. Niente. Stai mentendo il giorno di Natale ai tuoi cari, dopo il sacrificio eucaristico. Il giovane catechista che eri stato tanti anni prima non te lo perdona. La gola si stringe. Volevo farvi gli auguri, dici, vado a casa. Loro parlano di un agnellino tenerissimo cucinato per l’occasione, per farti cambiare idea. Ma tu devi andare a casa.

E ci vai, anche se nessuno ti aspetta. Tranne lui, ancora lì, in parte. Cominci a girare per la casa, esiti. Vai in bagno, tiri giù la lampo. Che bello pisciare, pensi. Niente di più vicino a un orgasmo, ultimamente. Ti ricordi che con quella mano hai dato la pace e ti chiedi quante mani che hai stretto avevano poco prima fatto qualcosa di simile. Non ti piace questo pensiero, ti scrolli, sopra e sotto. Torni in cucina: lui è ancora lì e tu non hai voglia di guardare i suoi occhi vacui. Perché ha dovuto dirti di no? Di persona, con la faccia compiaciuta. Stronzo. 789 pagine. La tua fatica. Due anni alla scrivania a cercare di mettere in piedi un romanzo epocale. Qualcosa che rivoluzionasse tutto. La letteratura, il mondo. Qualcosa. Ci credevi. Sapevi di poterlo fare, sapevi che dentro di te si nascondeva un genio che aveva solo avuto la sfortuna di non essere stato scoperto. Ma hai fatto l’errore di dirlo a lui. Avevate studiato insieme. Lo hai scelto solo perché era il ponte più veloce per un mondo inavvicinabile, visto che era ovvio che fino a quel momento tutti ti avevano rifiutato solo perché non avevi le conoscenze giuste. Quindi lui. Non ti stava particolarmente simpatico ma alla fine era riuscito a diventare editor, una roba importante. Sicuramente lo avevano sopravvalutato. Ma, ti sei detto, che farci? Era un mezzo. Sono un talento, gli hai detto, potresti essere quello che mi scopre. Lui ha riso, tu no. Non aveva capito quanto fossi serio. Ha preso comunque il manoscritto e l’ha letto. 789 pagine. Un’opera monumentale. La storia del male incancrenito in un uomo che, alla fine, cede. E lui che ha detto? Come ha osato schernirti? Tratteneva appena le risa. “Un mucchio di banalità” ha detto “scritte male. Tanti luoghi comuni in uno stile piatto, insignificante. Non conosci ciò di cui scrivi”. Aveva goduto a distruggerti, glielo avevi letto in faccia. Tu hai goduto dopo, però. Hai goduto quando hai preso in mano il bicchiere di rum che avevi cominciato a bere e glielo hai spaccato in testa. Quando gli hai infilato il coltello nell’addome, prima che avesse il tempo di riprendersi. Quando hai continuato a colpirlo mentre i suoi occhi spalancati e increduli non ridevano più. Solo dopo hai capito quello che avevi fatto. Qualche minuto, per metabolizzare. Ti sei accorto che l’idea di averlo ucciso non ti sconvolgeva, eri solo preoccupato per il corpo. Che fare del cadavere di un uomo? Lo sapevi, ci hai scritto su un libro, da qualche parte quella idea dovevi pur averla presa. Hai fatto una prova, hai tagliato via una mano e l’hai buttata nel camino. Cattiva idea. Forse per questo suonava tutto così poco credibile nel libro. Forse avresti dovuto provare prima di scrivere. Avevi i vestiti pieni di sangue e ti sentivi addosso la puzza di carne bruciata. Un odore terribile che non sei riuscito a cancellare neanche lavandoti. Il cadavere è rimasto lì tutto il tempo: solo una mano e già tutto quel fumo. L’odore di casa tua cambiato per sempre. Per fortuna hai guardato l’orologio: si era fatto tardi e dovevi andare a Messa. Darti un alibi. Non destare sospetti. Sarebbe stato strano se non ci fossi stato. Ma ora non hai scuse, devi farlo sparire, anche se è il giorno di Natale. Ti dispiace per la sua famiglia: ma hai già cominciato a considerarlo un sacrificio dovuto alla festa.

Un racconto di Mariana V. Scavo

Illustrazione di Verin

Lascia un commento