E poi c’è Matteo

Signori della corte, signori della giuria, vostro onore. In certi casi, occorre cominciare dal principio. Nella sua vita c’è sempre stato un Matteo.
La prima inquadratura lo vede davanti casa di Caterina, stretta e minuta tra le braccia ossute nascoste all’interno del maglione di lana pesante, a giustificarsi dell’ingiustificabile. Di non essere lui la persona.
«Non possiamo. Non mi sento pronta.»
Lei fissa un punto indefinito in alto, tra la veranda e la grondaia.
«E poi… c’è Matteo.»
Matteo, come ebbe modo di spiegargli più avanti una voce che sembrava provenire da un altro corpo, non lo ama. Forse non lo ha mai amato.
«Però lui ne morirebbe, capisci? Lui ha bisogno di me.»
Certo. Cosa c’è di più semplice?
«Matteo non ce la può fare. Tu sì. Tu non sei così. Tu non sei…»

Matteo. La seconda inquadratura lo ritrae seduto al tavolino di un bar, quattro anni dopo, tremendamente simile alla prima: Benedetta sorride con le amiche; anche in quel caso, c’è un Matteo dall’altro lato della strada, e Benedetta non può parlargli, non in quel momento. Matteo, come ci tenne a specificare sbrigativamente, ne sarebbe uscito distrutto.
«Adesso no. Matteo ci sta guardando, capisci? Non voglio fargli male…»

Nella terza inquadratura, Alessandro è a casa. Prova a leggere, a dormire, a guardare una serie. Si rigira nel letto ripensando alle parole di Benedetta: “Non voglio fargli male.”
Lui poteva soffrire, invece. Perché lui era forte. Non piangeva, lui. Era un uomo, lui.
Non propriamente un uomo: una particella, un corpuscolo maschile esploso senza direzione alcuna. Un pezzetto d’amore, sì, ma incontrollato. Uno strappo alla regola. Il cambio di rotta imprevisto, la risata conseguente, un ricordo felice da raccontare alle figlie ormai grandi. Ma mai il treno, mai la corsa stabilita, mai il binario. Non poteva, non doveva.

Era una scheggia, lui. E come tutte le schegge, non poteva ambire a nient’altro che a destabilizzare: la stabilità era per altri, la stabilità era per gli uomini interi; come Matteo.

Non fuggivano, quelli come Matteo. Quelli come Matteo c’erano e basta. Quelli come Matteo stavano fermi, fissi come in una fotografia da mostrare alla famiglia nelle occasioni importanti. Quelli come Matteo resistevano al tempo, incolumi. Non credeva nemmeno invecchiasse, tanto i suoi ricci erano perfetti e definiti, come ebbe modo di constatare, seduto sul letto, scorrendo le sue foto profilo.

La quarta inquadratura vede Ale impegnato nell’ascolto degli annunci della metro.
Il primo treno per San Donato sarebbe arrivato nell’arco di un minuto. Dalle bocche dell’altoparlante proviene la voce ovattata e ripetitiva di una cantante pop italiana.
È nervoso, ha dimenticato le cuffie a casa. Cammina avanti e indietro. Mai una volta che l’Azienda Trasporti Milanesi sappia avvicinarsi anche lontanamente a qualcosa che somigli a una playlist decente, pensò Ale, mentre la voce registrata raccomanda di disporsi dietro la linea gialla.
Se solo le porte non fossero state così vicine al suo volto all’arrivo del treno, se solo avesse potuto immaginare quel che sarebbe accaduto dopo, allora, forse, si sarebbe premurato di seguire le raccomandazioni, avrebbe capito che non tutte le norme di sicurezza sono fatte per nuocere e avrebbe fatto un passo indietro.

Magari adesso lo avrebbe incontrato nel vagone – pensò, furente, mentre alcuni passeggeri gli urtavano le gambe e due braccia lo tenevano fermo – e finalmente si sarebbero specchiati l’un l’altro, attraverso il vetro, per assistere entrambi ai pezzetti di vita che erano: così imperfetti, così piccoli, sempre fuori posto.

La quinta inquadratura, laterale stavolta, è la più impressionante. Il treno resta fermo all’ingresso del tunnel, la galleria è grigia, i pixel che compongono il soffitto si sgranano in uno sfarfallio. I capelli di Ale uno scompiglio. Il corpo disteso supino. Il grido lacerante della signora in pelliccia che dice: «La faccia!!! Gli ha portato via la faccia!!!»
Forse, se non sentisse un dolore così forte, se solo anche il venticello gelido che fischia nel tunnel non gli provocasse un’infezione, probabilmente, con tutti questi flash, si sentirebbe… illuminato?

I medici sono concordi nel constatare che sia necessario un innesto di pelle. Ricordate?
«Lo abbiamo già fatto, non si preoccupi» rassicura il primario rivolgendosi a una figura fuori dall’inquadratura in tono fermo, professionale.
«L’intervento è ancora allo stadio sperimentale ma – a-ehm – siamo sicuri che, con le giuste coperture, reagirà benissimo.»

Attenzione, è qui che troviamo il vulnus nella condotta dell’imputato, vostro onore.

La sesta inquadratura, come potete facilmente notare, vede il corpo tumefatto di Alessandro disteso sul lettino dell’ospedale, prima dell’anestesia. I lividi violacei sulle gambe somigliano a quelli dei video porno-hardcore. Fin qui, tutto bene. Osservate però adesso come gli stanno intorno i parenti: per loro l’evento ha un che di parareligioso, come quelle sette convinte che gli UFO abbiano fondato la Terra. Ecco, qui l’infermiera fa accomodare tutti fuori. E qui, tra le mani del nostro, avviene l’incredibile: «A chi vorresti somigliare?» chiede in tono materno l’inserviente.
So cosa state pensando: impossibile, è illegale! Okay, se è per questo anche mostrarvi le cazzo di immagini confidenziali di un’indagine in corso. Però seguitemi, ora. Visto? La mano tremante di Ale stringe lo smartphone tra le dita. Zoomiamo. Ecco, adesso si vede. Chi vi ricorda?

La settima inquadratura è una soggettiva: gli abbiamo installato una Go-Pro sulla fronte insieme ai cerotti. Ale si sveglia e guarda il suo riflesso nello specchio sopra al lavandino. Secerne dal naso una poltiglia grigiastra e il suo lamento si trasforma in un lungo e ininterrotto filamento grumoso. Tranquilli, non sente nulla, è sedato. Grida per lo choc degli ematomi al naso e tutto il resto.

Nell’ottava inquadratura, la mia preferita, assistiamo al momento della rimozione delle bende. Per Ale è come guardarsi per la prima volta. Il chirurgo che tiene lo specchio gli sorride, soddisfatto. Lui piange calde lacrime di felicità – o forse i sentimenti non c’entrano niente, per lui è un’esperienza quasi mistica, come i pazzi convinti di aver visto Dio: in quell’istante non ha solo assunto i connotati di Matteo, ma anche il fisico, la mente, le emozioni. La sua espressione, però, cambia quasi subito. Ale si tocca le labbra, incredulo: sa che non potrà mai essere l’originale.

La nona inquadratura vede Matteo entrare nel suo palazzo di via Sacchi. Esita un istante di fronte al portone, aspetta qualcuno. Benedetta forse o, come vedremo fra poco, il galoppino con le pizze. Benedetta non c’è, è a casa con l’influenza quella sera. Matteo gira la chiave nella toppa, entra, l’anta si chiude dietro di lui.

Nella decima inquadratura lo osserviamo dalla finestra del terzo piano: accende la luce, percorre velocemente il corridoio, scosta le tende della finestra in salotto, guarda fuori: è affamato, il corriere è in ritardo. Spegne la luce, percorre nuovamente il corridoio e si trascina verso il bagno.

Torniamo però alla telecamera di sorveglianza all’ingresso. Qui, un minuto dopo, accade qualcosa di singolare: una Peugeot nera parcheggia lì di fronte, la targa non si vede ma il modello coincide con quello dell’imputato. Ed è sempre Matteo, stavolta in impermeabile, quello che scende dall’auto e aspetta davanti al portone. Passano altri due minuti, il fattorino arriva, finalmente. Matteo paga e saluta cordiale, suona il campanello e attende il tiro. Si guarda intorno, furtivo.

La porta si apre. Sembra che la pioggia stia bagnando il marciapiede.

 

Un racconto di Davide Galipò
Illustrazione di Sara Valente

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