Perdon_Armani_Narrandom

Un lungo viaggio intorno al mondo

Eccola che si siede. Mi siedo pure io.

È sempre stato così quando ci toccano le conversazioni: io e lei nell’appartamento, una stanza lunga e stretta col letto imprigionato tra le pareti, che a salirci eri costretto a partire dal fondo e gattonare fino ai cuscini; un corridoio di monolocale nel quartiere dei pezzenti: tutto ciò che bastava all’amore.

È sempre stato così: lei seduta sul letto, schiena al muro, e io ai suoi piedi. Minuti interminabili di silenzio e minuti interminabili di parole. E poi le scuse, le mie. Sempre le mie. Sempre così, quando mi toccano le conversazioni. Sembra che non sia passato un anno, dall’ultima volta. L’ultima: quando il quartiere non era sventrato dalle asfaltatrici, dagli scavatori. Oggi, un anno dopo, decido di far parlare lei per prima.

 

– Sono contenta che tu sia tornato sano e salvo – dice. Io ringrazio. Devo fare attenzione, con le parole.

– Ho imparato tanto.

Sorride, si guarda intorno. Non è agitata. Riesco a sentire il suo odore anche da qui: the alla pesca, zucchero filato.

– Che cos’hai imparato? – mi chiede.

Ci penso mentre rallento il respiro. Ho imparato che, se penso a trovare una cosa che davvero non mi piace, qui dentro, faccio fatica. Ho imparato, studiando lo squallore dolcissimo di questo posto, che qualunque difetto non vale la tranquillità di questa casa, la serenità del petto di lei contro il mio orecchio, lo sfrigolare dell’olio sui fornelli a induzione.

– Ricordi di quando ti preparavo il tè? – le chiedo.

Si ritrae. Non era ancora il momento.

Mi scruta ancora un poco, prima di alzarsi e attraversare il corridoio che è la sua casa, che è stata la nostra. Il suono del getto d’acqua dal rubinetto è identico, preciso a come l’ho lasciato. Anche lei che trangugia l’acqua, vorace come quando non si beve da ore. Uguale.

Mi alzo. Sono anche io davanti al lavabo, ora.

– Fammi tornare.

– Mi puoi rispondere?

– Ho risposto.

– E dove sei stato?

Dove sono stato?

– Sono stato dove serviva.

Si volta dall’altra parte. Non sta funzionando, sono troppo affrettato.

Non se la beve, lo vedo dallo strizzare della palpebra, dalla ruga leggera sotto l’occhio sinistro. Indietreggia anche, ora, verso l’ingresso, fuori dalla portata del mio braccio. Sotto la sua palpebra inferiore mi ricordavo un solco nero, lungo, di sangue rappreso, che ora non c’è più. Il suo corpo l’ha assorbito. Ha assorbito tutto quello che poteva, il suo corpo. Ogni cosa che potesse ricordarle di noi.

Un rumore di tiranti e lo stridore metallico fuori dalla finestra disturba il silenzio.

Ho bisogno di concentrarmi, studiare ogni parola. Pioviggina. Io non ci posso passare un altro giorno, là fuori.

Quando torno a voltarmi nella sua direzione è già tornata sul letto. Lontana dalla porta, ha le spalle al muro.

Diglielo.

– E se ti dicessi che non sono stato da nessuna parte? – lei mi guarda. Tace. Perché tace?  La conversazione non è più nelle sue mani, non lo è mai stata.

Mi avvicino. Tengo le mani lungo i fianchi, per non far vedere il tremore.

– E se ti dicessi che non ho mai lasciato questa strada, che ti ho vista uscire ogni mattina e rientrare ogni sera decidendo di non toccarti, cambierebbe qualcosa se fossi stato qui, o a Tangeri, o in Giappone? – mi accosto all’unica finestra, che dà sulla strada. C’è una tenda da spostare. – E se fossi vissuto su quella strada, col naso all’insù, prima che questa gru mi impedisse di vedere? – le vado incontro. – … e se ti dicessi che è stato un viaggio lunghissimo, ogni giorno, lungo come questa strada di merda. La mattina e la sera a passeggiare, a mangiare per terra, a vedere passo passo la strada dilaniata dai lavori, l’asfalto aperto, e poi questa maledetta bestia crescere vicino alla nostra casa? – non le do spazio. – E se ti dicessi che ho fatto tutto questo solo per tornare, e per dire che mi dispiace?

Deve farti tornare.

– Fammi tornare a casa.

Le stringo il collo, ma solo un poco; giusto il tempo per ricordarmi il piacere dei muscoli della mano in tensione, e la morbidezza della sua pelle che cede. Stringo forte. Una sensazione ancestrale, una sensazione che conosco. Casa mia.

Lei aspetta. respira sotto le mie dita, e si prende tutto il tempo che vuole per voltare la testa verso la finestra, con la gru che ci si specchia dentro. Si prende tutto il tempo per mostrare la delusione.

Poi mi guarda, tossisce appena.

–  Casa, – sussurra; e sputa nel lavandino.

 

Mi volto verso la gru, il suo cavo d’acciaio abbandonato nel vuoto quasi annuisce. L’hanno costruita per non farmi alzare gli occhi verso casa mia.

– Casa tra poco non esisterà più, – continua lei. E non lo stacca, lo sguardo, da quel mostro gigantesco.

– La abbatteranno tra un mese, casa, insieme al resto del quartiere.

 

È sempre stato così quando ci toccano le conversazioni. Io che arrivo al momento di tacere, al momento in cui nulla funziona e nessuna strategia ha più valore delle altre. Ogni conversazione come un unico, lungo percorso che ritorna al silenzio di partenza. Al mio.

– Questa casa non ci sarà più.

Le lascio il collo. E lei, dove andrà?

– E tu, – sussurro – dove andrai?

Io? – si avvicina alla finestra – Io parto –, dice più piano che può, ma senza guardarmi.

 

 

Un racconto di Federico Armani

Illustrazione di Matteo Perdon

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