Caruso per Zandomeneghi

Sussidiario dei simbolismi imbranati

Gregorio da quando aveva parlato con sua sorella s’interrogava sull’alterità irriducibile della verginità frocia – lui stesso era per caso vergine? Giordana – appunto sua sorella – in terza media aveva fatto l’amore – sempre che sia lecito usare quest’espressione per intendere: abbassarsi i pantaloni della tuta, abbassarsi le mutandine, appoggiarsi al muretto del vecchio ingresso del palazzetto dello sport ora in disuso (e stupendamente adibito a pisciatoio, cannatoio, pippatoio, scopatoio, birratoio, tavernellatoio e letamaio), prendere una quattordicina di centimetri di carne  avvolta nel lattice in corpo, lasciarla fuoriuscire come una tenia molle in decomposizione dopo giusto tre o quattro colpacci pelvici dati di sbieco da un Mauro tanto sbruffone quanto goffo, provare un lieve fastidio, cercare per due giorni il rosso non relativo nelle mutandine di pizzo senza trovarlo – e gl’aveva raccontato tutto.

Da allora Gregorio, che faceva la quinta ginnasio, avendo due anni più di lei, aveva iniziato a porsi il problema della verginità frocia. Cioè: secondo il senso comune due etero funzionano a incastro univoco, c’è la penetrazione e ambo perdono la verginità. Ma nel caso frocio le cose parevano essere diverse, spiraliformi. La vera verginità è solo quella della femmina, il cui imene è deflorato. Per specularità simbolica però anche il penetratore viene detto “non più vergine”.

Ma nel caso frocio dove tutto era solo carne e simbolo? Sicuramente perdeva la verginità – cosa che aveva una sua importanza, una sorta d’iniziazione da mentecatti quali oggi noi tutti siamo – il passivo che lo prendeva in culo, tra le altre cose le possibili perdite di sangue andavano ad assimilarlo a livello immaginativo con forza alla deflorazione muliebre. Ma l’attivo? Se il passivo non era che una maschera o una scimmia o un sosia (sbagliato) della femmina penetrata, come poteva sprigionare quella specularità simbolica ch’era la pietra angolare su cui poggiava l’intero edificio della mala iniziazione sessuale del penetratore etero? Il passivo non la sprigionava, perché a sua volta viveva di luce riflessa, ne conseguiva che l’attivo si trovava in una posizione semanticamente depotenziata tale che secondo Gregorio non poteva dirsi non più vergine dopo – lui scopava parecchio, ma sempre da attivo – l’amplesso.

Ossessionato dalla questione, sfottuto dalla sorella a cui aveva vomitato addosso la diarrea mentale che gli vorticava in testa, consapevole della demenza totale dell’intera inutile faccenda classificatoria a qualunque fine e quindi della propria sostanziale imbecillità, avvilito dal proprio compulsivo assedio di formazioni mentali sempre più paranoiche, sempre più vuote e leggere, tanto leggere e pneumatiche che pareva lo trascinassero via; ecco, per tagliare la testa al toro, pur facendolo in modo innaturale e probabilmente – ma non certamente! – invalido anche ai mille e passa occhi che lo guardavano e giudicavano dal di dentro sussurrandosi commenti e non riuscendo a trattenere risatine; ecco, per tagliare la testa al toro, s’infilò un manico di scopa imburrato in culo e spinse, spinse forte, sperando di perdere anche lui la verginità, come la sorella, che primeggiava in tutto da quando erano bimbi: campionessa di pattinaggio, voti tanto alti da farla partecipare alle olimpiadi della matematica e al concorso sull’art. 3 Cost. indetto dalla ministra Fedeli, ragazzi bellissimi ai suoi piedi sempre carichi di fumo e di chetamina, rappresentate d’istituto e presidentessa delle giovani marmotte del partito democratico o come diavolo si chiamano ora che il fosco venditore di pentole farlocche tutto aveva rottamato a partire da se stesso.

La madre terrorizzata lo trovò sul pavimento, in una pozza di sangue. Scappò a quella vista, ma poi si voltò e divenne una statua di sale. Gregorio aveva preso uno o,8 d’oppio, quattro Tachidol e una boccetta di paracodina s’era spinto troppo alla ricerca del sangue, anelando quel rosso non relativo e così frugandosi tra le budella in cerca dell’agognato simbolismo parallelo. La parte fisiologica si risolse in un nulla, qualche punto, tre giorni in chirurgia.

Lo psichiatra – che pareva più giovane di Gregorio e che era molto più nervoso di lui – parlò di dissociazione, di autolesionismo, di complesso di Elettra, di disturbo ossessivo compulsivo, di delirio, di neurolettici, di benzodiazepine, di litio, di disturbo dell’identità di genere, di disturbo da stress post-traumatico, di stabilizzatori dell’umore, di olanzapina e di antipsicotici, di sorveglianza, di casa famiglia, di monitoraggio, di tossicodipendenza. Gregorio ascoltò con gli occhi bassi, sua madre piangeva, Giordana la consolava.

Il quarto giorno d’ospedale scese la notte, una notte più lieta e comunque differente dalle sue tante sorelle, strisciò nella camera di Gregorio, solleticandolo e facendolo sorridere, senza amarezza. Morse la flebo Gregorio, iniziò a soffiarci dentro con la forza del giusto e lieto ebbe la sua esiziale embolia.

  Un racconto di Andrea Zandomeneghi 

Illustrazione di Maria Caruso

3 thoughts on “Sussidiario dei simbolismi imbranati

Lascia un commento