La voce delle cose

Come quella grande chiesa, non mi ricordo dove sta, so solo che quando l’hanno costruita non ci hanno messo l’altare. Sul serio, niente altare. A raccontarlo non sembra vero. Uno pensa che le chiese le facciano apposta per poi metterci l’altare, e invece niente, lì non c’era. Non so perché, forse lo avevano dimenticato, o forse è successo come succede sempre, che stai quasi per arrivare in fondo e poi ti arrendi, e molli tutto lì. O forse pensavano che quell’altare, lì nel mezzo, nel mezzo alla chiesa, distraesse da quello che veramente importa, capisci.

Come quella storia strana che ho sentito in un bar. Non l’hanno raccontata a me, c’erano due, un uomo e una donna, che ne parlavano. E io ero lì da solo che bevevo qualcosa, forse una birra, o qualcosa di forte, e li ho sentiti parlare. A voler essere precisi era lei che parlava, e lui che ascoltava, come succede quasi sempre.

E quella è partita da un niente, dal bicchiere di lui forse, o dagli occhi del barista, che aveva gli occhi da marinaio, da uno che quasi ci  è affogato nel mare, e si è preso uno spavento tale che si è rifugiato sulla terra e non ha voluto sentire ragioni.

È da lì che lei ha iniziato a raccontare, o forse dal bicchiere di lui, non ricordo.

Era la storia di una donna e di una bambina, e dell’acqua, della voce dell’acqua, una grande storia, davvero. Come la raccontava lei poi… Ci si affeziona a storie così.

Solo che mi sono perso il finale. Ma ho sempre pensato che non fosse così importante come andava a finire. L’inizio invece lo ricordo bene, parola per parola, anche i respiri mi ricordo, tra quali parole riprendeva fiato. Iniziava così:

 

Un luogo, un luogo preciso.

Dove trovare la voce delle cose, quando sono mute. Mute come lei.

La donna.

Che non lo ha mai deciso che le cose dovessero andare così. Semplicemente, così sono andate.

E quando il destino inizia a correre, che fare. Lei gli è corsa dietro. Senza raggiungerlo, ma almeno seguendolo.

Ché se ci provi, lui lo sa e non ti delude. Non ti lascia troppo indietro. Fa finta di azzopparsi, di stancarsi, e con un po’ di fortuna si lascia pure prendere.

Era il pomeriggio di un giorno normale. La bambina stava sulla sponda del fiume, chinata in avanti, e diceva di sentire la voce dell’acqua. Sorrideva, gli occhi le brillavano quasi.

E poi quell’acqua se l’è portata via. Come se niente fosse. Le ha detto qualcosa e poi se l’è presa. Forse perché non le capitava tanto spesso che qualcuno stesse lì ad ascoltarla. Ci si era affezionata a quella bambina.

Se l’è presa nel pomeriggio di un giorno normale. Ed è lì che il destino si è messo a correre.

 

Quella bambina. Bisognava vederla, per capire. Vederla sulla sponda di quel fiume mentre parlava con l’acqua. Che poi se l’è presa, in un giorno normale.

Anche il giorno in cui la donna ha pronunciato le parole le tredici e tredici minuti, per rispondere ad un passante, che poi sono state le ultime, era un giorno normale. Perché al debutto tutti i giorni sono giorni normali. Finché…

Finché qualcuno inciampa, e fa un casino.

Oppure dio si stanca di vederseli passare sotto il naso tutti uguali, dal lunedì alla domenica. E ci mette le mani, così ha di che divertirsi per un po’.

E quando ci mette le mani lui è un disastro,

o un miracolo.

Ma di solito è un disastro.

 

E correndo dietro a quel destino strano, la donna si è ritrovata a cercare la voce dell’acqua.

Perché magari anche l’acqua, come lei, una voce ce l’ha. Solo che non è fatta di parole.

Si è messa a cercarla. E a raccontarlo non sembra vero.

Quella donna che per anni gira il mondo, e ascolta. Ruscelli, fiumi, laghi, torrenti, e a volte bicchieri, perché quello è un lavoro infame.

La voce dell’acqua è una roba complessa. Una sinfonia. Devi star lì ogni giorno, non ti puoi perdere neanche un passaggio.

La bambina l’ha sentita. Lei l’ha sentita subito. Ci sapeva fare con queste cose.

Passavano ore insieme a parlare. A modo loro, si parlavano. Non come si parlano tutti gli altri. Con regole diverse. Che se passavi di lì mentre loro parlavano non sentivi un gran che. Forse un suono, un po’ confuso, ma profondo, come quello dell’acqua.

Allora, la donna ha pensato al mare.

Volendo trovare la voce dell’acqua, forse era il mare che bisognava ascoltare.

Il mare. La fine del viaggio. Arrivata lì, era sicura che avesse l’urgenza di dire qualcosa quell’acqua. Con tutte quelle onde, poi.

Sarà un urlo, ha pensato la donna. Sarà una furia, quella voce.

E invece era un sussurro.

 

Poi la donna è morta. Aveva un sacco di anni quando è morta, e magari arrivarci a quell’età.

Ma ecco che viene il bello. Dal sussurro del mare, lei una cosa l’aveva capita.

Una parola. Una sola. Piccolina. Come l’altare in quella grande grande chiesa.

Io non lo so il finale di questa storia. La vera fine non la conosco, ma ho sempre pensato che nelle storie più belle non è la fine a fare la differenza, ma l’inizio.

E questa storia inizia con un luogo, un luogo preciso. Dove trovare la voce delle cose, quando sono mute.

 

 

Un racconto di Pietro Santini

Illustrazione di Alessia Arti

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