Non essere stupida

Domani la sveglia suonerà alle 6.30, avrai gli occhi ancora appiccicati di sonno e partirà il coro in falsetto di Breakthru, lo stopperai prima che il volume diventi troppo alto, rimanderai il risveglio di dieci minuti, poi Freddie Mercury canterà di nuovo per te, a new life is boooorn, lo fermerai ancora, altri cinque minuti, alla fine tua madre griderà sopra la chitarra di Brian May: «Sara in piedi!»

Andrai in cucina, al piano di sotto, scenderai le scale tirandoti su i pantaloni del pigiama e ti siederai a tavola. Sbadiglierai con il mento appoggiato sulla mano. Tua madre sarà già truccata, in tailleur pesca e camicetta bianca farà comparire sotto il tuo mento una tazza di caffelatte; tu cercherai nel pacco dei biscotti quelli che non sono ancora spezzati a metà. Il rumore dei suoi tacchi ti sveglierà del tutto, ti sembrerà di avere due corvi sulle spalle che beccano nelle orecchie. Poi dovrai dirglielo.

Poco dopo le 7.30 salirai in macchina. Tua madre sarà già al volante, impegnata a guardarsi nello specchietto e a cancellare piccole sbavature di rossetto intorno alle labbra.

«Ma vai a scuola così?»  lo dirà guardando i pantaloni neri e la felpa grigia che ti ha dato Michele, troppo larga e con i polsini scuciti. Ti tirerai i capelli indietro, sporchi dal giorno prima. «A Michele gli piaci quando ti vesti così?»

Vorrai metterti le cuffie, attaccarti alla voce di David Bowie e arrivare a scuola sussurrando You’ve got your mother in a whirl, ma domani non potrai ignorarla e dovrai parlare pure con lei. Dovrai dirglielo. 

Tua madre parcheggerà davanti alla scuola. Scenderai dalla macchina con lei che ti dice:

«Ti voglio bene Sarina» perché a lei non basta averti chiamato Sara, che è un nome che fa pena, deve anche storpiarlo. «Anche se ti vesti come una zingara» aggiungerà.

Sbatterai lo sportello, più piano di quanto vorresti, e non le avrai detto niente di quello che dovevi dirle. Forse sarà meglio così, meglio parlarne la sera quando ci sarà anche tuo padre.

Camminerai verso le porte del liceo classico Cesare Beccaria, che ti aspetteranno spalancate in fondo alla strada. Avrai la testa piegata e le mani sul cellulare: controllerai le notifiche, leggerai dieci venti trenta messaggi in cinque conversazioni diverse, non risponderai a nessuno. Intorno a te, ragazze e ragazzi come te, collo piegato e mani occupate, qualcuno andrà a fare sega e gli altri finiranno risucchiati dalle porte della scuola. Appena entrata, Michele ti tirerà una bretella dello zaino, ti starà aspettando. L’abbraccerai. Ti metterai sulle punte e, mentre gli baci le labbra, la bidella in portineria griderà:

«Ragazzi non si fanno le porcate a scuola.»

Michele si staccherà da te con calma. Si volterà verso la bidella e stringerà il cavallo dei pantaloni con la mano.

«Gianna leccami ‘l cazzo.»

Ve ne andrete da là, lui ridendo e appoggiato sulle tue spalle; tu stringendogli i fianchi ossuti e guardando le mattonelle. A metà corridoio Michele ti chiederà:

«Ti sei messa il profumo oggi?» ti annuserà sulla curva tra il collo e la spalla e i suoi capelli, ricci crespi neri, ti faranno solletico sotto l’orecchio.

A lui dovrai dirglielo subito. Non sarà quello il momento giusto ma dovrai dirglielo. Invece gli spiegherai che la puzza di profumo è colpa di tua madre. L’abbraccerai di nuovo e gli dirai che ti mancherà.

«Ancora? Vado a Genova, mica affanculo» lui ti prenderà la testa fra le mani, mani grandi da portiere, poi appoggerà la fronte sulla tua. «Lo sai, noi staremo sempre insieme, tranquilla.» Il suo fiato sarà caldo, saprà di caffè.

Ti staccherai dalla sua fronte e gli dirai che va bene, che gli credi. Certo che ci credi, uno come Michele va a giocare con la Sampdoria, dall’altra parte dell’Italia, e voi starete ancora insieme. Ci credi come credi al Signoreiddio che risorge, a Zeus che si trasforma in toro per trombare Europa, a Elvis ancora vivo da qualche parte in Florida.

Michele ti accompagnerà fino alla porta della classe, la lezione starà per iniziare ma sarà più importante parlare con lui. 

Vi rivedrete a ricreazione, dopo tre ore, e tu non gli avrai ancora detto nulla.

Lui ti vorrà portare fuori sotto la tettoia, là dove fumano professori e alunni. Tu ti tapperai il naso e lo trascinerai più avanti, fino al cancello arrugginito della scuola. Michele si appoggerà là con la schiena. Terrà aperto a metà il solito panino e staccherà il grasso dalle fette di prosciutto, poi lo butterà a terra. 

Gli spiegherai che hai avuto un ritardo di qualche giorno. Che poi il ritardo è diventato di un mese. Che il ritardo si è trasformato in un bambino perché l’ha detto un test di gravidanza. E l’ha detto anche un secondo test. Mentre parli ti tirerai le maniche della felpa fin sopra le mani. Gli dirai che no, non è uno scherzo.

Intanto per terra, in mezzo ai vostri piedi, le formiche formeranno colonne ordinate intorno al grasso del prosciutto.

Dopo la scuola aspetterai Michele accanto al suo motorino. Quando arriverà, invece di darti il casco, ti infilerà un piccolo auricolare nell’orecchio, l’altro lo terrà per sé. Monterai sulla sella e spererai che sia la volta buona, quella in cui ascoltate qualcosa che piace anche a te. Giro a pie’ ma non è sopra il ciel che voglio un aeropla’ bimba attacca lascia pe’ “Roma è bella” dice il re culo sopra un Alita’. Ti sfilerai l’auricolare e appoggerai la guancia sulla schiena di Michele. Lui guiderà con una mano sola, con l’altra saluterà gli amici a piedi.

Mentre sgusciate tra una macchina e l’altra, mentre superate quelle ferme al semaforo, soffi di smog caldo vi gonfieranno le felpe. Con la scusa dei rumori del traffico, un clacson che strilla, un’auto che inchioda, la marmitta modificata del motorino, arriverete a casa tua senza aver parlato di nulla.

«Con i tuoi ci hai parlato?» ti chiederà quando scenderai dal motorino.

Dirai di no con la testa.

«Fammi sapere cosa ti dicono».

Prima di andarsene appoggerà le sue labbra sulle tue. Le appoggerà e basta non sarà un bacio. Lo vedrai sparire dietro al palazzo in fondo alla strada, mentre la marmitta che sbraita la sentirai ancora. Aspetterai qualche secondo, giusto il tempo di essere sicura che non tornerà per dirti “se vuoi glielo diciamo insieme.”

Tuo padre rientrerà a casa qualche minuto prima delle nove di sera. Lancerà le chiavi nello svuotatasche all’ingresso e la giacca sul divano. Tu e tua madre, sedute a tavola una di fronte all’altra, lo starete aspettando. Sarà apparecchiato, anche l’acqua sarà già versata nei bicchieri. Lei indosserà ancora il tailleur e starà ticchettando con le unghie rosse sullo schermo del telefonino. Tu, ingobbita sul cellulare, guarderai Eric Clapton in jeans e maglietta nera che suona la chitarra, Would you know my name?

Tuo padre ti accarezzerà i capelli e ti bacerà sulla testa, tu infilerai il cellulare nella tasca della felpa e l’abbraccerai. Poi andrà da tua madre. Lei alzerà una mano e lo terrà distante, con l’altra continuerà a picchiettare.

«Dammi un secondo che ho quasi finito il livello».

Lui si siederà a capotavola e appoggerà gli occhiali sul tavolo. Si massaggerà le tempie.

«Scusa Sarina, metti la cena a tavola, fa’ la brava, che questo è un livello che non passo mai».

Tuo padre ti terrà una mano come per dirti che ci pensa lui, starà per rialzarsi ma tu lo bloccherai, gli dirai di stare seduto. Andrai ai fornelli e porterai a tavola una pentola di spezzatino di pollo. Tua madre intanto continuerà a spostare caramelle rosse viola blu sullo schermo e ad accumulare punti. Poi prenderai anche la padella con i piselli, riempirai il piatto di tuo padre e tornerai a posto.

Inizierete a mangiare. Lo sferragliare delle posate accompagnerà la melodia del gioco di tua madre, forse domani lo passerà davvero quel livello. Tuo padre ti chiederà di dargli il telecomando, sarà ancora in tempo per vedere la fine di Striscia.

Quando tua madre finalmente perderà, e metterà il cellulare da parte, vi dirà:

«Certo che potevate aspettare.»

Farà rotolare due cucchiai di piselli nel piatto, poi aggiungerà:

«Cafoni che siete».

Tuo padre le risponderà ciancicando il pollo e girandosi ancora di più verso la televisione.

Allora dovrai dirglielo.

Tuo padre starà ruminando. Tua madre starà scrivendo un messaggio. Le veline staranno ballando uno stacchetto sullo schermo dietro di te. E tu, guardando il pollo sfilacciato nel piatto, gli dirai che aspetti un bambino.

Tua madre ti chiederà se sei stata violentata. Le risponderai di no e vorrà sapere chi, tra te e Michele, è quello più deficiente. Non dovrai sforzarti di risponderle di nuovo, farà tutto da sé: «Sei tu Sarina, sei proprio tu quella più scema.»

«Ma mica vorrà tenerlo» dirà tuo padre rivolto a tua madre. Poi verso di te: «Sara ascoltami, non essere stupida, pensaci bene perché ti rovini la vita.»

E magari, dopo le lacrime e le porte sbattute, vi abbraccerete. Tuo padre verrà in camera tua, ti chiederà scusa e prenderà la tua mano. Tu gli dirai che non ci vuoi più parlare con loro ma lui non ti ascolterà, ti porterà in bagno a lavarti la faccia e poi giù in salotto. Ci sarà tua madre ad aspettarti. Avrà le braccia conserte e ti chiederà scusa pure lei.

Vi abbraccerete tutti e tre. Loro avranno ragione quando ti diranno che ti sei complicata la vita, ma avrai ragione anche tu, quando gli dirai che un bambino è forse un modo dolce di complicarsi la vita.

Vi abbraccerete come no.

Domani la sveglia suonerà alle 6.30, non ci sarà bisogno di rimandarla perché non avrai dormito e sarai già in piedi. Non dovrai dire niente a nessuno. Michele non lo saprà che hai avuto un ritardo che è diventato un bambino, tua madre non ti domanderà chi tra voi due è quello più deficiente, tuo padre non ti dirà di non essere stupida. Dopo la scuola, dopo i compiti, andrai al Consultorio. Compilerai i moduli. L’assistente sociale vorrà parlarti. Poi lo psicologo. E sarai sempre in tempo per ripensarci, ma ti rifiuterai di donare la vita a un bambino. Perché la vita, la vita è più odiosa della morte.

Un racconto di Mattia Cecchini

Illustrazione di Marco Pellino

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