Mirto

Bisogna essere stati in un bosco di lecci e di mirto per capire l’odore che prende la pelle a sudarci in mezzo. Già mentre gli camminava davanti, lungo, con la camicia di lino appiccicata addosso, l’odore di Giorgio gli arrivava diverso, resinato, ed era la stessa nota che avevano i mirti, appunto. 

I boschi di Pantelleria all’inizio di ottobre te li vedevi cambiare sotto i piedi nel giro di un passo. Calpestavi aghi di pino col sinistro, col destro eri già su un tappeto di ghiande e foglie macchiate dal blu delle bacche.

Per lo più stavano in silenzio. Parcheggiavano la macchina molto a valle e si inerpicavano per le mulattiere di roccia della Montagna Grande, strappavano un ciuffo di ginestra o un ramo di rosmarino e lo strofinavano tra le mani per far uscire l’aroma. Giorgio saliva a buon ritmo, senza mai voltarsi. 

Al ritorno le mani sapevano d’altro. Mentre la macchina scivolava sulle curve spazzate dal vento, tra le vigne e le costruzioni bianche snocciolate in collina, Cesare, solo, teneva una mano sul volante e l’altra davanti alla bocca, e annusando socchiudeva gli occhi. Il suo pensiero scansava il lavoro, le udienze che sarebbero riprese solo in autunno una volta tornati in città, e correva alla sera, quando avrebbero cenato di nuovo con Giorgio e Alice. Sua moglie Elena avrebbe sparso il giardino di candele alla citronella, sarebbe uscita dalla cucina con un vassoio di couscous e uno dei suoi abiti color pesca e tutti avrebbero detto ancora una volta quanto fosse bella, a quarant’anni. 

A cena avrebbero parlato di affittare un gommone per l’indomani, oppure dell’ultimo ristorante che aveva aperto sull’isola e che non sarebbe durato a lungo. Giorgio non dava mai mostra di sentirsi annoiato, ma Cesare sapeva che a un certo punto sarebbe andato a prendere la chitarra. Si sarebbe intromesso nel discorso con qualche arpeggio delicato, all’inizio, ma alla fine avrebbe trascinato tutti con sé per farli star zitti. A vederlo suonare, Cesare tornava subito a mettersi la mano davanti alla bocca, sforzandosi di richiamare il miscuglio del giorno.

Ma questo era prima. Giorgio e Alice avevano smesso da anni di trascorrere l’estate sull’isola, e il mandorlo davanti alla casa era diventato così grande da coprire il tramonto, che in quella stagione si vedeva dal porticato. 

A poco più di settant’anni, Cesare si era scoperto un fischio al cuore e ormai aveva paura a salire da solo alla montagna. Al massimo andava per funghi, oppure a raccogliere corbezzoli insieme a Elena per fare le confetture di Natale. 

Quell’estate la roccia nera scottava persino gli occhi, e Cesare si sentiva appesantito e stanco. Aveva preso a bere troppo, se non altro per resistere alla serrata maratona di cene e serate karaoke a cui lo sottoponeva la moglie. La sera si sforzava di rianimarsi per non farle torto, ma all’inizio di settembre, tra l’afa e la noia, per la prima volta aveva sentito il desiderio di andarsene da Pantelleria prima del tempo.

Si era risolto ad annunciarlo alla moglie, quando lei gli aveva detto che Giorgio e Alice avevano appena telefonato. Sarebbero arrivati l’indomani, per una settimana.

– Giorgio e Alice, dici?
Elena aveva scosso le spalle.

Non si vedevano da ventotto anni, e di colpo Cesare si sentì terrorizzato. Lo preoccupava l’idea che Giorgio fosse cambiato, oppure che non lo fosse. Lui si sentiva sempre uguale a sé stesso; non fuori, certo – fuori c’era ben poco da salvare, ormai – ma dentro sì, dentro era lui di allora, tale e quale, solo che in mezzo era trascorsa la vita.

Passò il resto della giornata da solo, andando a cercarsi uno scoglio vuoto. Mise la testa sott’acqua, aprì la bocca e pronunciò il nome di Giorgio con tutto il fiato che aveva nei polmoni. Poi rimase un po’ a mollo a guardare i pesci che gli passavano tra i piedi.

– Che ci torna a fare sull’isola proprio adesso? – chiese ai pesci, ma i pesci non risposero. 

Giorgio e Alice non si fecero vedere per tutta la settimana. In casa continuavano a passare frotte di gente ogni sera, e finalmente Cesare capitolò a tutto quel carnevale. Era il primo, ora, a rinnovare gli inviti e a riempire il frigorifero di prosecco ghiacciato. Il caos lo aiutava ad attutire il grido che aveva in mezzo alla testa, e che aveva sfogato solo sott’acqua, coi pesci. 

Elena assisteva con muto stupore al suo cambiamento. Ogni tanto, mentre parlava durante la cena, Cesare la sorprendeva a guardarlo dall’altra parte del tavolo, come a volte le capitava di fare di fronte a una pianta che non sapeva bene dove collocare in casa, dove potesse star bene. 

L’ultima sera gli ospiti tirarono lungo. Era l’alba quando Cesare, rimasto solo, spalancò le scorrevoli del porticato e uscì a respirare.

Si accorse che fuori schiariva e pensò che non gli capitava da anni di veder sorgere il sole dietro la Montagna Grande. Appoggiato alla balaustra che dava sui campi, accarezzò con lo sguardo la vigna lunga, bassa, fin dove la vista, un po’ compromessa, gli consentiva di arrivare. Appena vide accendersi il cielo, però, distolse lo sguardo. La bellezza, quand’era così palese, lo faceva sentire vecchio.

– Ogni volta che vedo una cosa del genere penso che bisognerebbe morire subito, sai? Per non rischiare che le cose peggiorino. – La voce arrivava dalle sue spalle. – Tanto, dopo uno spettacolo come questo, è quasi impossibile che non lo facciano.

Con la porta aperta Cesare non lo aveva sentito arrivare. Calò la testa in mezzo alle spalle e sorrise senza voltarsi; tuffò gli occhi nel vino, vide che si increspava. Giorgio appoggiò i gomiti sulla balaustra e si inclinò accanto a lui a guardare le cose davanti. 

– Ho inciso un po’ di canzoni, sai? Di quelle che cantavamo qui, che inventavamo insieme alle ragazze.

– Inventavamo canzoni? Non me lo ricordo.

– Veramente le inventavi tu.

– Io?

– Ma sì. Di notte te ne uscivi con quelle rime strampalate. Io facevo finta di niente per non darti importanza, ma a casa trascrivevo quelle buone.

Cesare scosse la testa. – Sei sempre stato un figlio di puttana.

Mentre ridevano entrambi, Cesare si voltò finalmente a guardarlo, scoprendolo intatto. I capelli bianchi e le rughe, certo, ma la struttura era sopravvissuta. Lungo e dinoccolato, il corpo nodoso, asciutto, le spalle spalancate, il viso pronunciato, da greco. Tutta la sua persona raccontava i suoi nervi. 

Cesare tornò a fissare i terrazzamenti scanditi dai muretti a secco, i filari di vite ad alberello su cui bisognava chinarsi, e più avanti gli ulivi, anch’essi schiacciati a terra.

– Sai perché le piante se ne stanno così acquattate, qui?

– Si riparano dal vento.

Cesare annuì. – Esatto. Se hai il vento contro ti adatti, non c’è verso. Anche questa è natura.

Giorgio rimase in silenzio per qualche istante. Sfilò dalla tasca una mano ossuta e abbronzata che reggeva già una sigaretta, se la portò alla bocca e l’accese. Indicò la montagna. 

– Ce l’hai ancora quella baracca, lassù? Dove tenevi la legna.

– Chi lo sa. Se la sarà mangiata il bosco, a quest’ora.

– Non ci sei più tornato?

– A fare che?

Giorgio spense la sigaretta e si voltò verso l’amico. – Sei invecchiato, Ce’.

L’altro lo guardò con la coda dell’occhio. – Tu no, invece.

– È la fortuna dei musicisti. Nascono sciagurati, poi migliorano. 

Cesare svuotò il bicchiere e sentì lo stomaco chiudersi come un pugno. – Al giorno d’oggi è una cosa normale, sai?

Giorgio si irrigidì nella voce. – Ma di che parli?

– Avremmo dovuto provarci, ti dico.

– Cesare…

Giorgio si accese un’altra sigaretta. Ora soffiava il fumo più forte, con impazienza. 

– Penso a quello che ci siamo persi, Giorgio. E poi al tempo passato ad aspettarti, dopo. Se sottraggo tutto che mi rimane?

– Ti rimangono alcuni giorni.

Cesare sospirò. – È poco.

Venne il gatto a interromperli con un miagolio insistente, strusciandosi alle loro gambe. 

– Per quel che mi riguarda, – riprese Giorgio, – da quando sono nato mi sono sentito vivo appena qualche giorno, ed è stato sempre su quella montagna.

– Poi sei sparito, però.

Giorgio si passò una mano sulla testa. – Tu non sai come mi guardava Alice. Non capisci, non capivi nemmeno allora.

– Dici che sapevano, lei ed Elena?

– Fa qualche differenza?

Cesare fece per ribattere, ma qualcosa lo interruppe, forse il pensiero dell’irreversibilità, dell’indifferenza del tempo alle sue recriminazioni.

– Hai avuto una buona vita? – domandò.

Giorgio scrollò le spalle e si mise a ridere. Non sapeva che dire. Felice lo era stato, tutto sommato. Erano solo sbagliati i presupposti.

– Io a volte mi guardo allo specchio e faccio fatica, sai?

Giorgio annuì. – A una certa età bisogna lasciar perdere gli specchi, amico mio.

Cesare si scostò dalla ringhiera e si voltò verso di lui con tutta la persona. L’alba tingeva le loro camicie, l’avevano in faccia, fin dentro la pancia. – Che sei tornato a fare?

Si voltò anche Giorgio, e fu strano starsene in piedi uno di fronte all’altro, come dovessero a un certo punto attaccarsi, fare qualcosa. – Alice ha il cancro.

– Che dici?

Giorgio si rimise a fumare. – Voleva rivedere Pantelleria. Non so perché volesse tornare proprio qui, tra tutti i posti.

– Avete figli?

– Due ragazze. La più grande ha vent’anni.

– Giorgio…

L’altro lo interruppe con un gesto della mano. 

– Te lo ricordi l’odore del mirto?

Cesare si strinse le spalle, si abbracciò come per ripararsi, per fare l’ulivo, la vite, adattarsi, ma gli parve che il vento lo sradicasse comunque, lo mandasse a sbattere contro una parete di roccia, gli svuotasse le fronde. 

Mentre si baciavano – due vecchi che erano stati giovani e da giovani si erano pensati vecchi insieme per un solo istante – d’un tratto gli uccelli del mattino parvero gli stessi che un tempo gracchiavano in cima alla montagna, tra i mirti. 

Il profumo si alzò, esistette ancora. 

– L’hai sentito?

Un racconto di Elena Panzera

Illustrazione di Valallart

3 thoughts on “Mirto

  1. Bellissimo racconto.
    Pieno di odori, emozioni, immagini. Ricorda che l’amore non è linea, non è forma, è configurazione vaporosa, intangibile, eppure indimenticabile, come l’odore del mirto.
    Complimenti davvero.

    Feles

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