Voglio una stella che sia tutta mia

Come tutti i martedì, Melissa e sua sorella Sara hanno appuntamento all’ingresso della palestra sotto casa di Sara per la lezione settimanale di yoga.

Come tutti i martedì, Sara è in ritardo. A volte Melissa se ne frega ed entra senza di lei, altre, come stasera, si attacca al citofono di sua sorella fino a che non la vede comparire dal portone.

«No, sul serio, ma come fai? Ma non ti vergogni neanche un po’?».

Sara le si schiocca un bacio sulla guancia. 

«Mmh».

«Mmh cosa?» Sara strappa il tesserino della palestra dalle mani di Melissa e lo esibisce all’ingresso insieme al suo.

Ogni volta, Melissa scuote incredula la testa. Di tutte le qualità di sua sorella, l’unica che avrebbe voluto possedere è quella di ribaltare le situazioni a suo favore. 

Fanno yoga da un anno. Sara ha avuto l’idea e Melissa si è preoccupata di concretizzarla. Come quando erano piccole e la mamma, una volta terminati i compiti, chiedeva loro cosa volessero fare. Sara s’inventava giochi e Melissa, di tre anni più grande, doveva fare in modo di realizzarli. A Melissa un po’ seccava, ma c’era un accordo con la mamma: «Se tu accontenti tua sorella, io accontento te». Solo che Melissa non aveva né sogni né desideri, a parte far felice sua madre. 

Negli anni, la loro stanza era diventata un set cinematografico, un autobus, un lunapark, una piscina. Avevano giocato a nascondino, o meglio, Sara, a sette anni, le aveva detto: «Io mi nascondo sotto il letto e mangio tutta la Nutella, ma tu di’ a mamma che non mi trovi fino a quando non finisco»; a lanciarsi maglioni e magliette; a provare le scarpe della mamma. Melissa l’aveva assecondata sempre. Anche la volta in cui Sara le aveva fatto fare così tante capriole sul pavimento che poi il medico aveva dovuto metterla a letto per quindici giorni in assoluto riposo con il collare semirigido.

«E io che faccio?» aveva piagnucolato Sara seduta a gambe incrociate ai piedi del letto della sorella.

«Guarda la tv».

«Mi annoio».

«Disegna».

«No».

«Va’ da mamma, chiedi a lei».

«È uscita. Per te, a prendere le medicine. E io non so che fare».

«Ti vuoi stendere sotto le coperte con me?»

«No!» si era guardata intorno nella stanza e si era illuminata. «Dove sono le lenzuola?».

«Che ci devi fare?»

«Una cosa».

«Cosa?»

Sara aveva aperto l’armadio di fronte al letto di Melissa. «Qui non ci sono».

«Ma mi dici a che ti servono?».

«Ora vedi».

Sara era andata in camera della mamma, aperto l’armadio e buttato tutto per aria fino a quando non aveva trovato ciò che stava cercando. Si era messa un lenzuolo bianco sulla testa e se l’era fatto scendere su tutto il corpo. Alzandolo con le mani, per non inciampare, si era appoggiata al muro del corridoio. «Chiudi gli occhi».

«Perché?».

«Tu chiudi gli occhi. Li hai chiusi?».

Melissa aveva sbuffato. «Sì».

«Giura».

«Giuro».

Sara aveva camminato in punta di piedi fino al lato che separava i loro due letti e si era accovacciata per terra. «Apri».

Per ordine del medico, Melissa poteva allungare lo sguardo solo frontalmente. «Sara?».

«Sara, dove sei?».

«Dove sei, non posso muovermi, lo sai».

Sara aveva contato fino a tre e poi era scatta in piedi. «Buuuuuuu».

Melissa, impreparata, aveva contratto il collo, e aveva urlato per il dolore. 

Sara aveva iniziato a saltellare tra i due letti con le mani per aria. «Fifona. Fifona. Fifona».

«Non sono fifona, mi sono fatta male».

«No. No. No» Sara aveva lanciato il lenzuolo addosso alla sorella. «Tu hai paura degli alieni. Tu sei una fifona».

Melissa aveva pensato che l’unica persona di cui aveva realmente paura era sua sorella. «Guarda che questo» si era tolta il lenzuolo dal viso «è un fantasma, non un alieno. E se non metti subito tutto a posto, mamma mi sgrida. E poi tu non sai neppure cos’è un alieno».

«Non è vero. Lo so. Tu non lo sai» si era rimessa il lenzuolo addosso e si era avvicinata al volto della sorella. «Sono un alieno».

«Sei un fantasma. Sei bianca. I fantasmi sono bianchi».

«Anche gli alieni».

«Sono verdi. Come E.T.».

«Ci sono di tutti i colori»

«Non è vero».

«Tu credi solo alle cose che vedi in tivù».

«Beh, in questo caso per forza».

Sara si era tolta di nuovo il lenzuolo e l’aveva lasciato scivolare sul pavimento. «Perché per forza

«Perché gli alieni li vediamo solo lì».

«Io li vedo sempre. Tutte le volte che guardo il cielo. E se nevica, sono bianchi».

«Quelle sono le nuvole. Gli alieni non esistono. E neanche i fantasmi».

«E nemmeno tu allora. E mamma».

«Beh, se non esiste mamma non esisti nemmeno tu».

Sara aveva abbassato lo sguardo, si era incupita e Melissa se ne era accorta subito. «Che c’è?».

«Niente».

«Sara! Che c’è?».

«Io li vedo sempre. Davvero». Le aveva puntato il dito. «E vi ascolto».

«Chi ascolti?».

«Te e mamma. Quando mi addormento e parlate di me».

«Quando tu dormi, dormo anche io. Finalmente. E non siamo alieni».

«Sì».

«Che dici!».

«Lei ti dice di farmi stare buona. Lei parla con te di me».

«Perché tu non l’ascolti».

«Io l’ascolto».

«E quando mai?».

«Sempre, se mi parla».

«Tu ascolti solo quando ti fa comodo».

«Meli» Sara le aveva poggiato la testa sulla pancia, «voi mi volete bene?».

«Mi sa che sei davvero di un altro mondo!».

Sara si era rimessa dritta accanto al letto. «Perché?».

«Qui sei solo tu che sembra che non vuoi bene a nessuno».

«Non è vero. Io a te un sacco. Voi a me no».

«Impazziamo per te. Io impazzisco per te».

«Giura».

«Lo giuro» e aveva unito indice e medio della mano destra e li aveva baciati da un lato e dall’altro.

«Ssh» Sara si era affacciata sulla porta della stanza e poi era corsa dalla sorella. «È mamma».

Un racconto di Edelweiss Ripoli

Illustrazione di Elena Giorgiana Mirabelli

One thought on “Voglio una stella che sia tutta mia

  1. L’estraneo tra le mura di casa che rende estranei tutti: la madre.
    Molto bello, come sempre per Edelweiss.
    E penso che i disegni di Elena siano ancora più intensi dei suoi scritti, trasfigurano.

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