Frana

Il peso delle palpebre sugli occhi che guardano la tavola già invasa di frutta, yogurt e dolci di pasta fillo; l’affondo dei sandali nella polvere del parcheggio assolato; le curve lungo la litoranea che taglia a mezza costa lo strapiombo di breccia, senza guardrail a valle né gabbioni a monte; l’abitacolo che si stipa della musica che piace a mia moglie e a mio figlio; il cartello in caratteri greci e latini; il piede in tensione sul pedale del freno nella tortuosa e stretta discesa verso il mare; la cinghia del borsone che mi sega la spalla, passo dopo passo, fino a quando troviamo posto nella cala, a due metri da un’altra famiglia; la resistenza alle bracciate delle onde che scrosciano fra i ciottoli; i piccoli tuffi di mio figlio a riva, per sfidare il coetaneo dell’ombrellone accanto; l’assenza di stupore nello scoprire che i vicini usano la nostra lingua per rimproverare il bambino in spiaggia e rimbeccarsi tra adulti sotto il pergolato del ristorantino; il torpore dopo pranzo e i pensieri che solo il mare può scuotere; i busti dei vicini che litigano a bassa voce immersi fino alla vita: lui mi assomiglia, con quei capelli neri e lisci, anche se quel gesto secco del braccio, quel rimbalzo in aria a indice e pollice uniti non mi appartiene; l’ombra che a quest’ora schiaccia la cala raggiungendo il mio petto supino sul telo; il tono grave di mia moglie nell’annunciare che sono le cinque ed è stanca; la fronte tesa al pensiero della salita fino alla litoranea e dell’ora di guida per raggiungere l’albergo, nella musica che piace a mia moglie e a mio figlio; il codino corto e biondo della moglie del tizio che mi assomiglia: lei se lo titilla fissando lui che si allontana lungo la battigia, maglietta in pugno e borsello a tracolla, dopo avere alzato la voce un’ultima volta, proprio mentre noi tre, borse in spalla e ombrellone sotto braccio, ci avviamo nella stessa direzione; il mio stupore nel non avvistare il tizio, né al bar, né al parcheggio, né su per i tornanti che la nostra auto risale un po’ a fatica fino alla litoranea, da dove le cime dei monti sembrano libere nell’aria, felici. Allora qualcosa cede: non sopporterò un’altra estate.

Poco dopo, il fragore.

Decelero e scambio uno sguardo con mia moglie, che spegne lo stereo. Rimane il silenzio della natura. Non incrociamo veicoli, nessuno ci segue. A sinistra lo strapiombo sul mare, senza guardrail, a destra la china di breccia, senza gabbioni. Mio figlio chiede che cosa è stato. 

Al minimo della velocità, supero il prossimo tornante. Venti metri più avanti, una piccola auto è ferma un passo prima della frana che ha appena invaso la carreggiata. Imprevisto tipico di questa isola.

Mi fermo, esco lasciando il motore acceso e moglie e figlio a fissare la mia schiena che si allontana verso l’auto sfiorata dal disastro. Al volante, zitto, lo sguardo davanti a sé, il tizio che mi assomiglia. A bordo c’è solo lui. Il finestrino è aperto. Gli parlo nella nostra lingua. Non risponde, ma sembra stare bene. Suda e forse piange. La sua fuga è fallita. 

Il ticchettio di qualche sassolino ritardatario mi costringe ad alzare lo sguardo. Tutto fermo. Eppure era vicino, come passato fra i capelli, rimbalzato dalle dita.

Abbasso di nuovo la testa. «Dai, facciamo inversione, prima che… Tanto qua non si passa più.»

Continua a ignorarmi. Sta osservando qualcosa nel cumulo di pietrisco, o nella mente.

Sollevato, gli dico «Fratello, devi tornare dai tuoi» e me ne vado. 

Come avvertire le autorità? Esiste una strada alternativa? Con i miei parlo di questo, non dell’estate, mentre ci porto più lontano che posso, tenendo lo stereo spento e suonando il clacson per allertare.

Un racconto di Luigi Ramenghi

Illustrazione di Elena Giorgiana Mirabelli

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