Lo straniero

A quei tempi la nonna passava molto tempo a cucire, chiusa nello stanzino degli stracci. Lo chiamavo così perché era una cameretta piccola, piena di pezzi di stoffa di ogni forma e colore che traboccavano dall’unico armadio e si ammassavano sulla sedia o in grandi mucchi ai piedi del tavolino da lavoro. In un angolo c’era un vecchio lavandino e, sopra, un’unica finestrella che dava sulla strada, da cui arrivavano smorzati i rumori dei carri o il vociare delle massaie che tornavano dal mercato. La stanza dava direttamente sul cortile e per entrarci bisognava usare una chiave che la nonna teneva sempre nella tasca del grembiule. Finite le faccende domestiche, si rifugiava nello stanzino ad allungare orli, ricucire strappi, aggiustare con vecchie pezze di cotone camicie e calzoni, che poi restituiva come nuove in cambio di qualche soldo. 

Nei lunghi pomeriggi invernali, a me piaceva stare accovacciato sotto il tavolino a guardarla maneggiare l’ago e i fili colorati, gli occhi ancora svelti dietro le lenti. Lavorava veloce, senza spreco di gesti, pescando il ditale dorato e le forbici dall’impugnatura di madreperla dal cestino ricamato a mano, e si interrompeva soltanto quando la penombra le ricordava che era ora di mettere la minestra a scaldare sulla stufa.

Una sera ero steso a leggere sotto due coperte, quando la porta si aprì all’improvviso facendo entrare uno sbuffo d’aria gelida. Sull’uscio stava un soldato, alto fin quasi a toccare lo stipite, gli stivali bagnati che gocciolavano sul pavimento; in spalla portava un fucile e sulla testa aveva calcato un berretto sudicio, fradicio anch’esso. Sempre arrivava col buio, e senza annunciarsi: la nonna, che dava le spalle alla porta, non aveva bisogno di voltarsi per sapere di chi si trattava, e non si voltò. Soltanto, piano, fermò il ritmico guizzare dell’ago sulla stoffa e attese, gli occhi bassi sul rammendo interrotto. Anche il soldato pareva aspettare, fermo sulla soglia e incurante del freddo che si impadroniva velocemente della stanza; tutto era così silenzioso che potevo sentire il ritmico ticchettare della pendola in cucina, al di là della parete sottile. Finalmente parlò, con quella lingua dai suoni aspri che non comprendevo. Senza capirlo, sapevamo però per esperienza che voleva cibo, e voleva danari che non avevamo, e che in ogni caso ci avrebbe derubati di tutto: una fiaschetta di grappa messa via quando era vivo il nonno, l’orologio del babbo che un giorno sarebbe stato mio, persino gli stivali di gomma per l’orto e una vecchia sottoveste, ogni cosa era buona per le sue voglie. La nonna ogni tanto aveva anche cucinato per lui ma, dopo, le stoviglie toccate dallo straniero invece di lavarle le aveva rotte con un colpo secco contro il muro. 

Questa volta invece non si mosse alle richieste secche dell’uomo. Si guardò le mani raccolte in grembo, le spalle curve come per una stanchezza improvvisa, che a me ricordava l’immobilità della serpe sul sasso. Il soldato allora fece un passo avanti ma lei fu più svelta: afferrò le forbici dal cestino e, tracciando nell’aria un semiarco perfetto, gliele piantò sotto l’ascella. L’uomo crollò all’indietro senza emettere un fiato, più per la sorpresa che per il dolore; lei gli fu addosso con agilità da ragazza e con un colpo preciso dello zoccolo gli conficcò le forbici oltre la stoffa spessa dell’uniforme e della maglia ormai logora, a fondo nella carne.

«Và ciamé Pascal, va’, corri!», mi sibilò in dialetto, e io scappai fuori come una lepre rincorsa dai cani, prendendo per sentieri storti dietro le case, senza osare alzare gli occhi a quello che poteva nascondersi dietro le ombre fitte degli alberi. Pascal era davanti al fuoco, un bicchiere sporco sul tavolo e addosso ancora i panni della campagna. Non chiese, non dissi: mi seguì.

A seppellirlo, ho capito molti anni dopo, avevano fatto una fatica sovraumana, la nonna e Pascal, nella notte a spaccare la terra gelata con un solo badile. Nei giorni seguenti al fatto, invece, io ero andato a scuola come d’abitudine, la testa bassa e la cartella stretta al fianco. A casa erano venuti i carabinieri a chiedere di un tedesco scomparso ma la nonna li aveva tenuti sull’uscio e aveva risposto a muso duro, i pugni sui fianchi, che i tedeschi lì non erano certo i benvenuti. Quelli dovevano aver considerato la sventura della vecchia che s’era dovuta arrangiare a tirare su un bambino da sola, il figlio morto in guerra, la nuora morta subito di parto; quindi avevano detto buonasera e se n’erano andati senza più tornare. Io, invece, avevo aspettato che passasse il freddo e, in un giorno di mietitura, avevo buttato lì: «Dove l’avete messo?». 

«Di che parli, stupido? Co’t dise, fòl?», mi aveva risposto. E poi, senza guardarmi in faccia: «Ricorda, non abbiamo visto nessuno qui. Stai zitto, capito? Stà ciuto».

L’estate, con i suoi giochi, mi portò via i pensieri e la fine della guerra anche si portò via tutto il resto, con le feste in paese e i progetti che avevamo noi ragazzi per un futuro spaventoso ed eccitante, nascosti nei fienili o giù al fiume, mentre scoprivamo per la prima volta la nudità dei corpi allungati sui sassi viscidi. A ottobre feci il mio ingresso alle scuole medie che ero ormai un ragazzo; addosso avevo la giacca nuova che la nonna, con le sue mani abili e un nuovo paio di forbici, aveva ricavato per me da una vecchia divisa militare.

Un racconto di Federica Tourn

Illustrazione di Marta Perroni

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