L’inevitabile

Quel giorno – ammesso che tale unità di misura abbia senso nel palazzo senza vento del destino – un grinzoso e rimpicciolito piede di vecchietta urtò con cieca volontà l’orizzonte dell’infinito e, come nel gioco del domino, il fuso calciato ne colpì un altro, finendo per causare la rovina di un intero muro di fusi nella fabbrica delle esistenze. Non era mai accaduto prima, la catena di montaggio escludeva l’azione libera e la vocazione era una benda sui loro occhi chiusi. Tuttavia, non fu la cecità a tenere le due sorelle all’oscuro del gesto della maggiore, bensì il fatto che nessuno si aspettava che proprio lei, la più anziana e spietata, sabotasse il suo stesso lavoro. Scricchiolii di ossa, ansimi di vecchie che non sono abituate a chinarsi e la parola che esce per ultima, come se l’immortale lavoro l’avesse abolita: Cos’è successo? I fusi. Sistemare le esistenze. 

Rotolando in mezzo a quel caos, una delle matasse le venne incontro. Badando di tenere le due dita della destra, ormai una forbice affilata, lontane dal fuso, Atropo avvolse il filo attorno al mignolo e decise di entrare in quella vita dove giorno, ora e tempo avevano l’illusione di un significato.

Aprì gli occhi in una stanza arredata di luce e modernità. Trovò il suo giorno di libertà proprio davanti a sé, incarnato in un corpo giovane con un golf blu carta da zucchero, e si sporse un poco per ammirare nella cornice dello specchio la sua pelle luminosa, la grana levigata dai sorrisi del tempo che adesso non sembrava scalfirla. Il riflesso la mostrò girarsi verso una voce che la chiamava agitata: «Stefy? Ohi, ma ci sei?» le disse una ragazza, venendole incontro con un tacchettio di fretta ed eleganza. «Non ci arrivo, mi dai una mano?» aggiunse voltandosi e alzando la camicetta. «Mi sta dando il tormento» si lamentò porgendole un paio di forbicine. Lei restò come imbambolata a guardarsi le dita, turbata da quel filo che sporgeva dal reggiseno, finché l’altra non invocò polemica l’orologio: «Vabbè, ho capito, qui stiamo ancora nel mondo dei sogni» civettò e corse via. «E tu? Non dovresti essere già in ospedale?» domandò prima di chiudersi la porta alle spalle. 

Stefania Gallo, diceva il badge che aveva trovato sul comodino, un nome che aveva sentito subito suo, come un anello attorno al dito o il camice che adesso indossava mentre girovagava per i corridoi dell’ospedale. Tra i tanti pazienti in attesa, si fermò a osservare due fratellini; il più piccolo aveva una benda di garza sull’occhio. «Uno non fa in tempo a tirarli fuori che già si cacciano nei guai, eh?». Un ragazzo con il profumo del mare sul camice osservava la scena accanto a lei. «Dobbiamo salire in sala parto. Pare che il figlio della Vitali abbia deciso di anticipare».

«Che dobbiamo fare?».

A quella domanda il ragazzo dalla mascella regolare rispose con un sorriso contingente come quel mondo: «Le solite cose. Tu le dirai che quelle urla devono diventare dei grossi respiri regolari e che va tutto bene. E poi ce ne andiamo a pranzo insieme, che ne dici?». Le sorrise di nuovo e lei sentì che quell’espressione si accompagnava a un fine che era ispirato dalla sua persona. Preferì non rispondere. L’infermiere si avviò e, con l’entusiasmo che lei aveva cominciato ad associare al profumo del mare, le disse: «Non mi hai mandato a quel paese, Gallo. Facciamo progressi!».

In sala parto la signora paonazza in volto inspirava, cercava sollievo, la chiamava per nome. «Le contrazioni sono mie amiche, giusto?» le chiedeva, mangiandosi le ultime parole nello sforzo. «Dilatazione sette» disse l’infermiere, intento a tenere d’occhio la collega taciturna che per la prima volta guardava stupita la vita mortale nel travaglio di una madre. Il dottore osservava i battiti sul monitor, e la donna cercava di respirare con forza controllata. «Sono mie amiche, mie amiche, cristoddio!» ripeteva, tenendosi forte al letto, mentre l’infermiere richiamava l’attenzione di Stefania sbarrando gli occhi e facendo cenno di metterle una mano dietro al collo. «Brava… Spingi» riuscì a dire lei, e l’altro mulinava la mano in aria come a dire: avanti così. «Continua, continua» riprese Stefania. La donna si aggrappava alla sua voce e il monitor sembrava ora il respiro di una locomotiva. «Dai dai che sta uscendo» la incoraggiò l’infermiere per aiutare la testolina che gli veniva incontro, poi uno strattone del monitor al respiro, fu il ragazzo a dare l’allarme: «Dottore, i battiti!». Tra i movimenti concitati dei due e i tutto bene che continuava a somministrare, Stefania si accorse che la situazione le sfuggiva di mano. «Ha il cordone intorno al collo!» disse l’uomo che era intervenuto. «Stefania, che succede? Dottore!» esclamò la donna come in un brusco risveglio. «Prevenire la compressione! Subito!» comandava intanto l’uomo. «Stefania, io lo tengo, lei tagli. È pronta?» disse porgendole le forbici. Lei le guardò. «È pronta?». Le grida della donna salivano contro le intermittenze del monitor e il pianto di vita del neonato sembrava una radiolina che si riavvolgeva. Atropo arretrò di un passo, ora sentiva solo il respiro che le saliva in testa e soffocava tutto fino a precipitarla all’indietro, accolta da una sedia che scricchiolò sotto di lei, vecchio ramo trasportato lì dal tempo, le dita lunghe e affilate levate in aria, il peso del fuso nella mano sinistra.

Un racconto di Valerio Russo

Illustrazione di Marta Perroni

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