Sassocarta

Sono un foglio di carta e questa è la storia del perché sono diventato fuorilegge. Sono un formato A4 di media grammatura e misuro 210 x 297 mm, le dimensioni adatte per una stampante. La mia sfortuna è stata trovarmi in cima a quella risma, sopra il bancone dei controlli finali, all’interno del capannone C, da poco sfornato dalla macchina di quell’azienda cartaria che stava passando in mani cinesi.

Insieme a me, disposti ordinatamente in colonna, block notes, rubriche telefoniche, post-it, rotoli di pergamena e quaderni. Ognuno con le proprie finalità, ognuno con aspirazioni commisurate all’utilizzo per cui era stato progettato.

La pergamena, ad esempio, con aria aristocratica e una certa ricercatezza nell’eloquio, andava dicendo: “Suvvia signori, cercate almeno di non insozzare l’aria con le banalità a cui siete deputati: rischiate di permeare le mie fibre. Sono dato in sorte alla cornice dello studio di un luminare della medicina o verrò posto dietro la scrivania del prossimo architetto di fama mondiale”.

I post-it ridevano frusciando, i block notes fischiavano, la rubrica mostrava orgogliosa sotto ai neon il filo dorato della propria copertina cartonata.

“Oh, oh, chiedo venia – disse ridendo in modo composto – non era mia intenzione provocare tale isterica reazione solo enunciando ovvie verità. Eppur non mi sovviene alcun vostro utilizzo diverso dalla lista della spesa, la trascrizione dei numeri di telefono di canute zie o di qualche appunto per smemorati”.

I miei simili iniziarono a scomporsi, tutti convinti di esser destinati ad attestare chissà quali verità, timbrati e firmati in calce. Un grosso sasso di fiume, sonnolento, levigato e grigio, evitava il nostro sparpagliamento facendo gravare il suo peso su di noi. 

In quell’istante la grossa anta basculante del capannone stridette e lasciò passare Andrea, l’addetto ai controlli di qualità. Era al telefono, il tono e lo sguardo ancor più pesanti della pietra che ci teneva inchiodati al bancone.

«No, Sara, no. Non c’è nessun’altra. No, Sa’. Non ci possiamo sposare perché sto col culo a terra, perché mi hanno licenziato. Sì, no, non chiude l’azienda. Delocalizzano, portano tutto in Cina. Che a me all’inizio m’era venuto pure da ridere quando il capo me l’ha detto. Perché sai, no? Produciamo la carta di riso che in Cina deve andare alla grande ma lui invece era serio e m’ha detto che ero licenziato perché tra un mese il capannone chiude e portano via i macchinari».

Ogni foglio di carta del capannone C tacque. In quell’attimo di silenzio, Andrea ravviò la lunga frangetta dietro l’orecchio. Poi riprese con tono più alto ed esasperato. 

«Sì, Sara, sì: l’amore, ma con l’amore non si mangia. Qua è tutto nero, è nero l’umore, è in nero il tuo lavoro e c’è un uomo nero dietro a ogni angolo che ci spinge via e ci vuole veder soffrire e ci mena e ci insulta e io non ce la faccio più! Io…io spacco tutto, spacco tutto, Sa’, tutto, tutto!».

Chiuse la telefonata continuando a ripetere tutto, tutto, ma la voce non raschiava più, era quasi un sibilo e la testa cadde sul ripiano del bancone. Si alzò singhiozzando, asciugò la fronte con la manica della tuta da lavoro e aprì secco il cassetto di fianco a lui. Tirammo il fiato quando la mano sparì in quello spazio, poi le nostre peggiori paure si materializzarono nelle grosse forbici dalla punta acuminata che teneva in mano. Aprì un altro cassetto e ne tirò fuori un tubo di colla stick e un quotidiano che spiegò sul bancone, stirandolo con la mano. Quando allargò le dita, le lame ruotarono sul fulcro generando una scia di terrore resa ancor più lugubre dal suono dell’impercettibile attrito metallico. Poi il peggior nemico di ogni foglio di carta fece mattanza del giornale, ritagliandone lettere di diverse grandezze che Andrea incollò in modo disordinato sulla mia faccia. La mia paura e la sua furia, l’appiccicaticcio delle sue dita e le lacrime salate che mi caddero addosso, non mi permisero di leggere il nuovo significato della mia essenza. Gridolini soffocati accompagnavano ogni sforbiciata: la pergamena ammutolì, i block notes abbandonarono la loro compostezza, un brivido corse lungo l’alfabeto della rubrica. Quando ebbe finito, Andrea prese il grosso sasso di fiume che teneva insieme i miei simili e mi accartocciò su di esso con forza. Finii nella sua tasca e, dopo un tempo indefinito, mi trovai di nuovo stretto nella morsa della sua mano, in mezzo a una strada. Andrea guardava con odio una finestra dietro le cui tende si intuiva una flebile luce. Allora alzò questo nuovo connubio sasso-carta dietro la sua testa e ci lanciò con violenza inaudita. Ricordo in modo confuso ciò che seguì. Frantumammo i vetri della finestra che esplosero senza rallentare la nostra corsa. Andammo ad impattare su una testa che anch’essa proruppe in luccicanti gocce rubino e scaglie ossee, poi finimmo il nostro slancio rotolando su un tavolo e travolgendo un candeliere. Udimmo grida e sedie ribaltate, mugolii di dolore e scalpiccio di tacchi sul parquet. Poi una mano mi afferrò e con gesti rapidi mi dispiegò sul tavolo separandomi dal sasso. Negli occhi atterriti della donna che mi osservava, lessi il messaggio che recavo mentre nelle sue iridi si riflettevano rosse lingue di fuoco che divampavano sulle tende appena mosse dal vento.

«I fannulloni vanno a spasso,
non si sporcano un dito
ma il loro mestiere non è pulito».*

*tratto da I colori dei mestieri di Gianni Rodari

Un racconto di Stefano Paolucci

Illustrazione di Nora

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