Viola tra questi mortali

Ti ritrovo nel tuo vestito, nei tuoi passi che aumentano di velocità. Cammini in una città scottante coi pensieri che vagano lontani, il corpo ti galleggia sull’asfalto, il vestito svolazza da una vetrina all’altra, o così credi, sotto un’insegna di sofà, di fronte a una banca, un minimarket, macerie capitaliste, manichini televisivi che ormai rimangono le nostre strade. Ma che vuoi saperne tu. Non c’è differenza tra via Baracca e il colore del fiume, trattenuto in basso dal caldo disturbante. Anche tu traballi in basso, hai i piedi sporchi, sei uscita scalza. Ho sempre detto che la tua faccia è troppo grande rispetto al corpo, il tuo corpo gracile, in faccia sei cattiva. Forse è per questo che ti ho rinchiusa in mansarda e ti ho cancellato i capelli preparandoti al tuo colore: il viola.

Ti ho dato viola da mangiare, da vestire in raso morbido, e viola sotto cui dormire, in quel divano lercio, ma sembravi contenta, di emergere lì, rannicchiata sotto la coperta, senza capelli e appoggiata su un altro foglio di carta che ti ritraeva affacciata a una finestra, viola. Ti ho obbligata a guardare senza interruzioni: la strada, il numero civico, l’albero di glicine sotto la finestra, tratteggiati solo per te, per riempirti la testa. Con tutti i corpi veloci che passano sotto il glicine senza fermarsi a guardare chi guarda dalla finestra, veloci come lo è il tuo adesso, con la testa però rallentata che pensa: “Non mi vedrai mai più, ti lascio tutto il bianco nel foglio e ti divento invisibile”. Ti ho dato il viola per non pensare e credi di poter scolorire? Sento le parole fiorirti dalla mente come ciclamini. Quello che non capisci è che io ti sto facendo scappare, io ti faccio pensare, muovere, desiderare, io ti creo. Dal bianco, sul bianco, dalle mie mani: vieni fuori così.

Da stamane una vertigine dentro mi spinge le ossa del sonno, non riuscivo ad aprire gli occhi, viola dappertutto, non ti volevo più, sempre tu, un foglio dopo l’altro, se eri entrata dai fogli il momento stava arrivando: e ho lasciato una porta aperta. Fuori da qui. Avevi pianto e pianto, non bevevi non mangiavi, sbavavi, diluivi, volevi solo uscire, specchiarti fugace nelle vetrine, stringerti al tuo corpo, fermarti a guardare, disobbedire, girarti da un lato all’altro, toccare qualcosa, anche l’asfalto, sulla carta ti assottigliavi, diventando quasi una striscia. La verità è che non ti rassegni a essere impalpabile, un tratto che non dipende da te.

Come questa fiamma ti attraverso il viso. Nessuno ti vede, stai lì a rubare parole, vorresti imparare a fumare, per giunta. Stupida creatura. Ho provato a dirti: “Guardati dentro di me, sono io l’unico vuoto del tuo corpo, io che ti rigetto in questa realtà sottile, è di me che ti puoi riempire”. Ma non ascolti. Se cammini, se senti come ammassi di vestiti sotto ai piedi, in via del Barco, o all’angolo sotto la tettoia del bar, sono le mie onde di colore per l’asfalto. Se vorresti dire addio al mondo: “Che mondo sei se esiste qualcuno come lui?” sono mie le domande sfigurate. Tu appartieni a queste mani. E non hai scampo.

Se le strade sbandano come i fiumi, se i fiumi e gli affluenti assomigliano alle arterie, alle vene, i rami e i ramoscelli alle ossa nelle gambe su per le braccia che adesso ti ciondolano, e anche alle dita, non ai tuoi capelli corti corti e fermi che un tempo erano viola, ma ora non possono più nemmeno essere ricci, ecco sono io. Torno nel tuo viso a tutti quelli che avresti vissuto, come una ladra.

Mi derubi del bianco. Da quando sei nata, così per caso, non sapevo nemmeno chi stavo cercando. Ho provato a ospitarti e nutrirti e rinchiuderti per guardarti, ma poi scappavi ogni volta in un angolo diverso del foglio, in mezzo all’uscio dormivi, sotto alle macchine strisciavi, dalle bancarelle del mercato rubavi le noci e ti nascondevi sugli alberi. Il vecchio Gioele delle Cascine potrebbe dirlo: “Ruberebbe il fumo alle candele”. Non lo disegno più ma continua a darmi le idee.

Ti ho minacciata, sei tornata. Ridevo quando credevi che i poliziotti stessero arrivando per portarti via, ammanettarti e curarti, gli occhi a fessure li facevo diventare burroni. “Non posso nemmeno gridare rinchiusa come sono” ti disperavi.

Ora alle Cascine vuoi andare a cercare quell’albero che fa scomparire per dare i frutti dello stesso colore dei pensieri. Non lo capisci. Per te ho scelto il viola e non hai alternative. Prova, se hai coraggio, a chiedere un altro colore, un azzurro, un vermiglio, oppure solo bianco. Non potrai comunque smettere di sentire la mia voce. Esisti moltiplicata da me: Viola tra questi mortali, che non ti conoscono, tra questi resti di parole macere e infime nostalgie, Viola spalmata sulla carta, con le lacrime che spingi in dentro: “Mi hai fatto correre, cantare, danzare, scivolare sull’acqua, confondere la notte con il sole; e ora mi implori di saltare?”.

L’albero ha una chioma che somiglia ai tuoi capelli prima che li cancellassi. È lui, sentiti al sicuro. Strappa una balza dal vestito e attorcigliala al collo: sì, va bene, salta, lasciati immortalare, svanire in questo attimo prima. Esatto. Ferma così, nei tuoi occhi. Quello sguardo perduto alle mie mani…

Un racconto di Maristella Bonomo

Illustrazione di Nora

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