Il regalo per Teco

Credo che tu abbia fatto bene. Facevamo l’amore una notte sì e un mese no. Nascosti sotto le lenzuola, tu mi mordevi la spalla e intrecciavi le gambe intorno alle mie, ma io ti scansavo. Ho il mal di testa, inventavo con troppa fantasia, ma in realtà non avevo voglia di te.

Così vorrei rispondere a Cristina. Seduta accanto a me, sul bordo del letto, mi ha appena detto che si vede con un altro. Invece abbasso la testa e mi fisso le punte delle scarpe: «Mi dispiace.»

Lei stringe i pugni, le nocche diventano bianche.

«Sai dirmi solo questo?»

Non ho solo quello da dirti, e quel poco che ti ho detto non è neppure vero. Ma resto in silenzio.

«Oh, sto parlando con te.» Negli occhi le compaiono granelli di lacrime: significa che è arrabbiata.

Si alza. Va alla scrivania, mi butta per terra il libro di economia e gli appunti, poi sbatte la porta della camera. Poco dopo, anche quella di casa.

Passa mezz’ora e nessuno dei coinquilini è venuto a domandarmi come sto. Ci siamo risparmiati il teatrino in cui loro mi chiedono come va, io giuro che è tutto a posto, loro insistono e io rispondo che non ho bisogno di nulla. Poi sarebbero usciti dalla mia stanza, con indosso la maschera bastonata di chi vorrebbe aiutare ma viene rifiutato.

Davvero, io non sto male. Devo solo sbrigarmi.

Alle sedici e trentadue, al binario quattro di Milano Centrale, salgo sul treno che mi porterà al binario uno dell’ultimo paese della provincia. Come ogni venerdì torno a casa dai miei. Stasera a cena, mi chiederanno di nuovo quanti esami mancano alla laurea, ma solo perché loro stanno facendo i sacrifici per farmi studiare in città.

Apro il finestrino del vagone e butto lo zaino sul sedile accanto al mio. Dentro non ci sono libri ma un regalo impacchettato.

Il controllore mi restituisce l’abbonamento e io rimetto i piedi sopra il sedile. Tiro fuori il cellulare dalla tasca della felpa, rileggo i messaggi di Teco. È l’unico a cui ho raccontato di Cristina.

Teco è un ragazzo normale che fa cose strane. Non ha il profilo Facebook, neanche quello di Instagram, compra ancora DVD e CD, perché non guarda Netflix e non ascolta Spotify. I libri li legge come se costruisse un puzzle: sfoglia un racconto di Wilde, impara a memoria quattro versi di Rimbaud, legge una pagina di Pasolini. Gli piace fare la fila, così può osservare la gente che sbuffa e che sta accartocciata sullo schermo del cellulare. Quando si presenta dice di chiamarsi solo Teco, non ci crede nessuno, lui giura e giura il falso: si chiama Telemaco.

Salto l’ultimo scalino per scendere dal treno. Sulla banchina, poco vento stanco mi bacia le guance. È così che mi accoglie la provincia: come una vecchia truccata. Sorride e mostra i denti, tutti dritti e bianchi, ma basta far attenzione per accorgersi che sono quelli finti di una dentiera. Le gengive sono forse già marce, e la bocca è troppo vuota. Esco dalla stazione. Le mura dietro di me sono lerce di croci celtiche e svastiche. Struscio con i piedi verso la fermata dell’autobus.

Un cretino suona il clacson dietro le mie spalle. Mi giro per urlargli ma il cretino è Teco.

«Monta, andiamo al cinema» apre lo sportello, le maniche arrotolate scoprono le braccia pelose.

Salgo in fretta, come se potesse scappare.

Teco parcheggia la macchina distante dal cinema.

«Così facciamo una passeggiata e mi racconti bene cosa è successo» dice. «Metti lo zaino nel portabagagli, non si sa mai.» 

Vorrei subito dargli il regalo, ma rimane chiuso nell’auto.

Camminiamo lungo corso Giorgio Almirante verso il cinema, tra palazzi scrostati che pendono l’uno contro l’altro. Sopra qualche balcone si affacciano vasi di fiori secchi. La strada è butterata, come la faccia di un ragazzo, e io inciampo su un sampietrino. Ridiamo fino alle porte del cinema, che cigolano.

Sullo schermo i colori sono sbiaditi e le linee sfumate, dalle casse rovinate la voce degli attori pare il verso dei corvi.

Teco non aveva voluto prendere i popcorn, diceva di non avere fame ma poi, appena si era fatto buio in sala, aveva cominciato a rubare i miei dal sacchetto che tenevo tra le gambe. A volte, sommerse tra i popcorn, le nostre mani si sfiorano; e se mi volto a guardarlo, lui mi mostra la piccola fessura tra gli incisivi.

Il film finisce dopo l’una, la città è già a letto da un’ora. Il corso sembra vuoto, e solo dai vicoli schiacciati tra i palazzi arriva il brusio buio di sconosciuti.

Teco mi racconta del suo lavoro da panettiere. Appena finita la scuola era andato a dare una mano nel panificio del padre: gli incassi aumentavano, il lavoro anche, eppure pareva che di soldi per assumere una persona non ce ne fossero. Così Teco era rimasto là, tra i forni e i sacchi di farina, con il padre che bestemmiava il cristosanto che accidenti a lui non manda più sulla terra un cazzo di giovane con la voglia di lavorare, pensano solo a quanto li paghi, mica li vogliono fare i sacrifici.

«Ma io sono stufo» mi dice. «L’anno prossimo vado all’Università, vengo a studiare con te a Milano.»

Uno accanto all’altro, superiamo il sampietrino che mi aveva fatto inciampare. Attraversiamo lo stagno di luce sotto un lampione. E forse perché barcolliamo, forse perché ci pare un gioco, ci tocchiamo il dorso delle mani. Passa un secondo. Le nostre dita si intrecciano come radici, i palmi si baciano e consumano lo spazio tra di loro.

Appoggio la fronte sulla spalla di Teco, e mi colpisce qualcosa. Tra le scapole. Mi slaccio da lui, ci voltiamo, e vedo un sampietrino piegargli la faccia. Lui s’inginocchia, tiene le mani pigiate sulla bocca, le dita si inzuppano di sangue.

«Froci di merda!» Sono in tre. Ci tirano altri sassi.

Scappo.

Mi giro con il fiatone, li vedo addosso a Teco, lo prendono a calci e sputi.

Corro più veloce.

Un racconto di Mattia Cecchini

Illustrazione di Nora

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