La vocazione

Sono bravi tutti a tirare i sassi, ma come li tirava mio padre nessuno.
Era un mago lui, aveva una vocazione.
All’inizio sparava insieme a mio nonno, che gli aveva insegnato a cacciare prima i fagiani e dopo i cinghiali, poi al poligono, almeno una volta la settimana. Ci è andato per anni, poi gli hanno ritirato il porto d’armi e il perché non lo voglio dire, ma sta di fatto che non poteva più sparare.
Allora si è messo a sparare con i sassi. Qualcuno gli ha detto – spara con l’aria compressa, – ma lui niente, si sentiva umiliato.
Allineava bottiglie vuote sul muretto di casa, davanti al parcheggio del condominio. Quelle di vino, che erano più alte, due per lato. In mezzo le bottiglie di birra, basse e strette. Si allontanava di una decina di metri e iniziava a lanciare.
I sassi li sceglieva accuratamente, prendendoli dal fiume. Mentre io facevo il bagno nell’acqua gelida, mio padre se ne andava in giro a cercare sassi perfetti.
– Devono essere dei proiettili, – diceva. Li sceglieva di diverse dimensioni; quelli piccoli-piccoli, che ci vuole mira e braccio, i più difficili. Quelli di grandezza media, il più tondi possibile. Le granate, li chiamava. Per quelli serve meno forza e più grazia. E poi c’erano quelli grossi, che erano i migliori, ma non si potevano usare sempre. Con le bottiglie non servivano a niente: da dieci metri nemmeno ci arrivavano. Quelli grossi li usava per altro e per cosa non lo voglio dire.

Si portava i suoi sassi a casa e li sistemava in garage, disposti sopra delle mensole d’acciaio. Alcuni, dopo averli usati un po’, li buttava oppure me li regalava. Altri, i suoi preferiti, li ha conservati per anni. Sono sassi speciali, quelli, perché mio padre li ha lavorati utilizzando uno scalpellino apposta. Non ne ha modificata la forma, perché i sassi devono essere così come la natura li ha creati.
– Quando vai a comprare i proiettili li scegli, non è che te li fai fare su misura. A meno che sei uno zingaro, – diceva. Su ognuno dei suoi sassi preferiti aveva inciso grechine o disegni tribali. È un lavoro di precisione, ci vuole mano ferma per non spaccare a metà il sasso.
Per lanciare usava un guanto, quello di quando sparava al poligono e andava a caccia con suo padre. Sempre lo stesso. Era rivestito da pelle di daino, a parte il palmo che era di cuoio lavorato, morbido, quasi elastico.


Il lancio era frutto di duro allenamento, ma anche di studio della posizione del corpo. Concentrazione. La carne, nel flettersi, diventava una sostanza densa e compatta. Osservandolo lanciare, potevo vedere il braccio, libero nella canottiera, stendersi perfettamente teso oltre la testa, un angolo a novanta gradi tra la spalla e la spina dorsale. Come una catapulta in tensione. Incurvando la testa, liberava l’occhio migliore chiudendo l’altro. Diventava un mirino. Attendeva concentrato, immobile, che non ho mai visto niente di così fermo né prima né dopo di lui. Nemmeno respirava. Ordinava al cuore di smettere di battere. Aspettava fino allo stremo e poi mollava. La sua forza stava tutta lì; nell’elasticità e nella resistenza. Bloccare e liberare. Proprio come una pistola che non ha bisogno di accumulare energia: ha bisogno di un innesco e per farlo si deve abbandonare.
Allora le tre dita, che fino a quel momento avevano racchiuso in un abbraccio morbido e senza pressione il proiettile di roccia, si aprivano nell’attimo in cui dovevano. La sua mano, in una frazione di tempo impercettibile, andava a coincidere perfettamente con la posizione dell’occhio. Mio padre sentiva, dentro il corpo, il click dell’asse che si era allineato. E il sasso partiva.
Un giorno gli chiedo – ma tu sai tirare anche i sassi piatti? Quelli che bisogna fargli fare il surf sul pelo dell’acqua, – e lui mi risponde – io voglio bucare, rompere, mica scivolare. – Mio padre vedeva sé stesso come l’estensione della roccia che esplode dall’arto per raggiungere il bersaglio attraverso la perfezione del gesto. Era lui stesso il grilletto, il cane che crolla sull’innesco, la brutalità rozza della roccia che attraversa uno spazio-tempo impossibile e colpisce. Se avesse potuto, si sarebbe lanciato lui stesso contro le bottiglie sul muretto facendole esplodere, attraverso il cartoncino sagomato del bersaglio al poligono a tagliare e trapassare, dentro il tronco del cinghiale a lacerare. Era la cosa che gli riusciva meglio, il rubinetto che libera la rabbia repressa e diverse altre cose.
Ha provato, per anni, a insegnarmi a lanciare, ma è un lascito che io non ho mai accettato. Dopotutto, a me non è mai interessato sparare i sassi, non è la mia cosa. Alla fine, lui è invecchiato e ha rinunciato, la cataratta gli ha portato via la mira, la cirrosi gli ha rubato la forza, l’età gli ha tolto elasticità.
Ieri gli ho detto – ma ti ricordi quando ne hai presi due insieme con un tiro solo? – e cosa ha preso non lo posso dire. Lui nemmeno si è voltato, però ha allargato tre dita artritiche, senza sforzo, lentamente. Qualcosa nell’occhio migliore si è illuminato. Sicuramente ha ordinato al cuore di smettere di battere, ma solo per un attimo; il tempo di puntare, liberarsi ed esplodere.

Un racconto di Mattia Grigolo

Illustrazione di Nora

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