Il desiderio di una vita

La fuga. Io corro corro corro, corro verso nord, e quella mi trascina trascina trascina, trascina ovunque fuorché a nord. L’idea di non far nulla mi si strozza in gola e sono un transatlantico speronato dai cavalloni salati; con le cime che una ad una si sfibrano e si staccano; con frustate e spruzzi bianchi e lampi nel cielo basso sulla mia chiglia; e voi ditemi come si può rimaner fermi e non far nulla così.

Non riesco a piangere ma vorrei.

Mi ricordo che un tempo ci si aiutava a vicenda, anche fra sconosciuti, era un continuo: Ehi la vuoi una mano? Ora mi guardo intorno e le persone ci sono ancora tutte, ma sono impegnate, e io nemmeno la voglio una mano, vorrei solo aver qualcuno con cui fare due chiacchiere e magari piangere un po’. La vita non si interrompe se tu prendi un respiro ma se non prendi un respiro la tua vita si interrompe. Io respiro ormai da un po’, mi è stato insegnato bene e c’ho dato qualche aggiustatina da autodidatta, ma sento di poter fare di meglio, molto. In ogni caso respiro e solo quando lo faccio mi accorgo che sto vivendo.

Siamo una riga di operai in una catena di montaggio con le tute azzurre. Un cartellino bianco appuntato sul petto e il nostro nome a piccole lettere stampate sopra, troppo piccole per farsi leggere. Siamo sporchi di grasso di motore, mani braccia e tuta; e smistiamo mele, cuori di maiale e ceste di gattini tra le varie file di tappeti automatici; e ogni tanto lo si vede, qualcuno che sorride, ma solo alzando la testa possiamo vedere ciò che con fatica stiamo costruendo; se somiglia più ad un parco giochi o ad una tomba per un’infanzia rubata.

Alza la testa, mi diceva Paola quando, nascosti sulla sabbia umida tra i cespugli, stavamo stesi a guardare le stelle gettarsi a capofitto e scomparire nel fascio luminoso dei lampioni di una pineta urbana. Alza la testa o te le perderai tutte! e allora io alzavo la testa e lei abbassava la sua sulla mia spalla e mi abbracciava afferrandomi e stringendo il suo corpo al mio come per fonderci. Io mi voltavo per baciarla sul capo tra i suoi capelli castano chiari e intanto le stelle si tuffavano e io me le perdevo convinto di star vivendo, ma in realtà perdendomi la vita che accadeva proprio sopra alla mia testa. Lei non mi baciava.

Ora alzo la testa molto più spesso e Paola non c’è, è lontana, se n’è scappata a Torino, una Torino molto distante, distante verso nord. Io corro verso nord ma non verso di lei: ora pesa come polvere e correndo verso la polvere questa è molto probabile venga spazzata via; è transitoria. Corro verso nord solamente per non correre verso sud, e verso sud c’è un sole caldo e un po’ rimpiango di non star correndo verso i suoi raggi, ma verso nord sento che c’è qualcosa che ancora mi sta aspettando, e non è Paola che prima è diventata una pasticcera, poi una casalinga, ed ora è un polo magnetico. Si corre per scappare e si corre per raggiungere, e delle volte si corre per piangere e si piange per scappare.

Non è facile perdere la bussola, sentirsi tirare in ogni direzione. Voler andare costantemente in quella opposta, perché solo lottando in senso opposto e con la stessa intensità si può rimanere fermi. Ma fermi non significa indietro; il passato è una finestra chiusa con la nebbia che si divora il cortile all’esterno.

Camminare nella quarta dimensione, avanti e indietro, quella sarebbe una fuga da provare: per nascondersi come un asceta nelle pieghe del tempo, dove poter essere immortale, dove poter alzare la testa quando si vuole; per potersi prendere ogni momento per piangere la tristezza e ridere la felicità, consumare ogni emozione fino in fondo, senza perdersi nemmeno una sfumatura; completando tutto quello che ci sarebbe concesso completare se non fossimo collegati e condannati a questo deperimento. Passeggerei sulle note degli anni e una volta arrivato alla noia la trascorrerei tutta, forse prendendo a calci un sasso lungo la strada del mio quartiere, forse impazzendo e strappandomi i capelli. Fischietterei avanti e indietro, a sud e a nord, da Paola a Torino a Paola sulla spiaggia. E una volta vissuto tutto, consumato tutto, il calore di una carezza, la sofferenza degli alberi, l’apatia del vento e l’indifferenza del cosmo; solo allora saprò che la morte mi avrà già preso, uno, cinque o un milione di passetti prima, per portarmi con sé, per curarmi le angosce, perché la morte è infinita e traccia i prolungamenti della quarta dimensione verso gli orizzonti oltre la materia, oltre il tutto, dove forse ci sei tu, ad aspettare me, che corro corro corro, verso nord.

Un racconto di Matteo Thiella

Illustrazione di Emanuela Sandu

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