Verticalismi

Che occhi grandi che hai! Penso guardando la bambina biondissima di fronte a me mentre l’ascensore ci porta dal piano terra al sesto piano di un palazzo in centro città.

Piano Primo. Stringe la mano destra di una donna dai tratti nipponici e una bambola più bionda di lei in quella sinistra. Che occhi grandi che hai. E di che colore sono? Verdi? Grigi? Azzurri? Ogni volta che li ho guardati hanno avuto un colore diverso. Che fossimo in fila al distributore del caffè, in attesa di sostenere un esame, nel traffico, alla stazione, al mattino. «Sei la mia persona preferita» dicevi.  «Guarda che culo quella!» Dicevi. Ridevo. Ero felice, sono sempre stata felice quando c’eri tu di mezzo. Non volevo mai andare a dormire per non perdermi nessuna delle tue perle sull’epicureismo, sulla politica, sulle donne, sul campionato. Osservavo rapita quel modo strambo che avevi di agitare le braccia mentre provavi a portare il mondo dalla nostra parte. Era dolce la vita vista da lì. Lo sarebbe stata qualunque vita.

Piano secondo. Fisso la bambina e le faccio l’occhiolino. Lei abbassa lo sguardo malandrino trattenendo un sorriso. Siamo sulla terrazza di un circolo privato, ci siamo imbucati fingendoci amici del festeggiato, qualcuno sta ballando ossessivamente l’ennesimo tormentone estivo di merda, mentre io ho i piedi poggiati sulle tue gambe e bevo il sesto bicchiere di vino della serata. «Ho avuto una grossa offerta di lavoro. Grossa assai. Sud America. Divento il capo. Roba che svolto. Al mio ritorno potremo comprarci tutto questo, esattamente come lo vedi! La terrazza, le barche, tutti questi orologi che hanno ai polsi! Vedrai…vedrai…». 

Piano terzo. Guardo il cellulare fingendomi distratta e lei inizia un passo a due con la bambola solo per attirare la mia attenzione. La ignoro volutamente. Lei insiste. Alzo lo sguardo di botto e la inchiodo con una linguaccia. Nella mise en scène non aveva mai smesso di fissarmi. Occhi azzurro mare. Eri un sostenitore della teoria per cui “il mare è una donna” e dunque gli stupidi eravamo noi che ci ostinavamo ad attribuirle un genere che non le appartiene.  «Se ci pensi è fonte di vita, ti culla, è imprevedibile, un attimo è calma, l’attimo dopo è in tempesta» «È una femmina quindi?», ti chiedevo. «Na malafemmina», sentenziavi. 

Piano quarto. «Sei molto carina! Come ti chiami?». Inibita dalla domanda si nasconde timida dietro la gamba di quella che è chiaramente la tata. Non vedo più il viso, non vedo più gli occhi. Non ho mai sopportato guardarti dormire. Quegli occhi chiusi li percepivo come il tradimento di una promessa fatta alla me bambina. «Se tu chiudi gli occhi io non posso guardarli. È un po’ per lo stesso motivo per cui continuo a parlare». «Ah non è perché sei logorroica?» .«Si lo sono, ma è anche perché non mi piace il silenzio». «E perché mai?». «Perché il silenzio non si può scrivere».

Piano quinto. «Si chiama Sofia!», risponde gentile la donna. Sofia, dal greco σοφία, che maledetta malattia mi hai mischiato. L’ossessione per le etimologie. L’ossessione per le parole. Prenderle, mischiarle, buttarle a caso, parole per compiacere, parole per adulare, parole per raggirare il prossimo. Parole per ricordare. Per scatenare guerre. Per uccidere. «Pensi questo di me?». «Che sei un granissimo stronzo? Certo!» .«Allora è giusto dirsi addio». 

Piano sesto. «Che bel nome Sofia e quanti anni hai?». All’addio seguirono gli anni vuoti. Quelli che odio perché il silenzio non si può scrive. E così non scrissi nulla. Fissai il foglio bianco per anni nella speranza che le parole si mettessero insieme da sole. Ti avrei voluto raccontare degli amori sbagliati, degli amanti eccellenti, delle discussioni interminabili con tuo padre su quale sarebbe stata la cosa giusta da fare per lo Svedese della Pastorale Americana. Di quante volte sono poi ritornata a Napoli e ho passato le domeniche pomeriggio seduta sulla panchina di fronte casa tua, casa nostra. Per ricordarmi che lì c’era piovuta addosso la felicità ma non eravamo stati in grado di afferrarla e tenerla stretta. Sei stato più saggio e lungimirante di quel che pensi ad abbandonare Milano. Avrebbe imbruttito anche te. Come fa con tutti quelli che ci restano a vivere troppo a lungo.

Le porte si aprono… la tata china il capo in segno di commiato da me e dai miei pensieri. Sofia la segue agitando un quattro per salutarmi.

Dovrei uscire anche io, ma non ne ho voglia. Voglio restare ancora un attimo in questo posto. Mi poggio alla parete di questa stanza che non appartiene a nessuno. Qualcuno ha chiamato dal decimo piano. Le porte si chiudono e i miei occhi le seguono. 

Piano settimo. Sono in ascensore,mi aspetti fuori dall’ufficio. Sei arrivato con venti minuti di ritardo. Hai preso la vespa “così facciamo prima”. Sicuramente faremo prima per il compleanno del prossimo anno. Fai l’occhiolino e mi passi il casco. Al semaforo inizia a piovere. Schizzicazzichea anche oggi, sospiri. Fisso i tuoi occhi riflessi nello specchietto retrovisore. Stiamo tornando a casa. Oggi Sofia avrebbe compiuto cinque anni.  

Un racconto di Ramona Lacorte

Illustrazione di Nora

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