Tutto l’universo obbedisce alla vulva

Penso che Dante abbia edificato il miglior libro della letteratura per introdurvi alcuni incontri con l’irrecuperabile Beatrice.

Jorge Luis Borges, Nove saggi danteschi

Guglielmo Sputacchiera, fuoricorsista di professione e sessualmente disoccupato dalla nascita, capì di essersi innamorato della sua compagna di facoltà Alessandra Ferramenta, quando, salendo insieme in ascensore, come ogni venerdì, per il laboratorio di lettura dantesca livello asino, disse a se stesso che avrebbe preferito trascorrere tutta la vita con lei, chiuso in quella placenta buia, cubica e secca, rifugiato tra i suoi seni fino alla decomposizione, piuttosto che vivere fuori, nel vasto universo, solo e svulvato.

Insomma, tra la Ferramenta e tutto il resto, Sputacchiera avrebbe scelto la Ferramenta, ma per fare l’amore e non il sequestro, per il quale comunque non era idoneo, sia a livello morale che atletico, dovevano essere in due e quindi bisognava chiederlo anche a lei. 

Frangia curata con precisione matematica nonostante le umanistiche lacune scientifiche, grazioso volto a mela, sorriso mite e dentisticamente corretto, vestita sempre bene per senso di colpa provinciale, Alessandra Ferramenta era una studentessa come molte, più ordinata che brillante, iscrittasi a Filosofia perché, nel corso di un’infanzia corrucciata in paese, aveva amato, giustamente, più i libri della biblioteca che gli esseri umani. 

In poco più di due mesi di lezioni, anticipate dal preliminare muto e palpitante dell’ascensore condiviso, Sputacchiera aveva ottenuto pochissimi piazzamenti nella corsa verso il monte di Venere, si faceva prestare la penna senza avere la carta, il temperino senza avere la matita, ma la maggior parte delle volte sedeva accanto a lei senza parlare, respirando, col suo petto da pollo, ampie e psicotrope boccate di paradiso. 

La penultima lezione però, a poco più di due pause accademiche dal fallimento, perché la Ferramenta poi si sarebbe data all’eremitismo della tesi, il docente, vecchio dantista, così gravitazionalmente ciccione che camminava sull’asfalto come fosse in acqua, cioè sbuffando e infartuandosi a ogni passo, tra un monologo polveroso e l’altro se ne uscì con una digressione irregolare, accademicamente incauta, eppure in grado d’infondere in Sputacchiera tutto il coraggio necessario per compiere finalmente il balzo della cazzata: 

«Borges, nei suoi saggi danteschi, scrive che Dante s’inventò il viaggio ultraterreno non per il lauro poetico o per farsi profeta della seconda venuta di Cristo, ma solo ed esclusivamente per incontrare di nuovo Beatrice, morta prima di lui: Dante fu a tal punto vulvomane che per rivedere la vulva creò Dio. La sua Commedia sarebbe dunque un ascensore, un ascensore poetico verso la vulva celeste. Se è così, allora aveva ragione Freud quando diceva che ogni opera estetica, ogni disciplina scientifica, ogni teoria filosofica e persino ogni azione, dal giardinaggio pubico alla guerra mondiale, non è altro che il tentativo di sublimare un desiderio rimosso. Tutto ciò che esiste tende asintoticamente alla vulva, tutta la storia è storia di lotta per la vulva, tutto l’universo obbedisce alla vulva». 

Dopo quelle parole, basate sul minchionismo intellettuale di un professore ipodotato ma iperpagato, Sputacchiera sentiva dietro di sé l’ombra luminosa di un esercito di compagni, una falange macedone di peni acuminati, spiriti vulvolatri che prima di lui, per un pelo di assoluto, avevano scritto, combattuto, s’erano fatti poeti, avventurieri, giullari e zerbini. 

Il mattino dell’ultima lezione si presentò quindi al solito posto, al piano terra accanto all’ascensore, col respiro asmatico e terminale del pesce in gita turistica sulla terraferma. Le avrebbe devoluto i suoi diritti umani, le avrebbe detto che lei era tutto e lui non era niente, e la Ferramenta, venere in cappotto, gli avrebbe concesso l’onore di guinzagliargli la vita, lo avrebbe adottato, come si adottano i bassotti monchi, quelli col carrellino al posto delle zampe posteriori. 

Ma dopo dieci minuti la ragazza e i suoi occhi induisticamente allungati e i suoi stivali in similpelle non erano ancora arrivati, e troppo timido e ottocentesco per mandarle un messaggio, Sputacchiera salì da solo in ascensore per scoprire, all’ingresso schiamazzante dell’aula, che la sua unica ragione di vita, invece di aspettarlo, aveva preso le scale e sudato e ansimato, camminando lascivamente, come su un treppiede androgino, con un trentenne stropicciato artista patacca, di quelli che frequentavano le lezioni per praticare la pesca sessuale miracolosa, pasturando le studentesse. 

Quando vide che l’Altro la annusava, frugava e traslocava, come fosse tutta roba sua, addomesticandole il collo con la manona da sedicente scultore pomodoriano, mentre lei, a occhi umidi e albumizzati, faceva scenate pornomistiche alla Santa Teresa d’Avila, Sputacchiera capì che se tutto l’universo obbediva alla vulva e la vulva infine non lo voleva, allora tutto l’universo era contro di lui. 

Anche se fuori restava vivo e vegeto, ovvero vegetale, e biologicamente morto lo sarebbe stato soltanto più avanti, annegato dal surriscaldamento globale, investito da una bicicletta o biodegradato nel cassonetto dei rifiuti umani, quel giorno, come un pupazzo di neve sotto il flagello della pioggia, Sputacchiera cominciò, impercettibilmente, a svanire, perché, chiuso l’ascensore celeste e fallito a priori nel troppo piatto mondo, gli era rimasta un’unica infernale opzione cartesiana: poco per volta, interrarsi.

Un racconto di Alberto Ravasio

Illustrazione di Nora

Lascia un commento