Teresa non si muove

Glielo dissero alla festa di San Rocco, prima che i fuochi d’artificio sgomitassero tra le stelle per prendersi il loro spazio nella notte. Teresa Tucci, 11 anni appena compiuti, era rimasta al centro della piazza, con il vestito bordato di pizzo giallo che le ondeggiava leggero sulle ginocchia. Pareva una spiga di grano filiforme, tremolante in mezzo ai colpi costanti del vento. S’era messa a fissare il cavallo smaltato di una giostra senza sentire il tormento delle zanzare sui polpacci, incapace di esistere al di fuori di quel paese. Non c’aveva creduto alla maldicenza ma la pancia aveva preso lo stesso a farle male, come se dentro un serpente l’avesse strappata a morsi.

Quando arrivò la mezzanotte il vento smise di incresparle la veste. L’insinuazione invece continuava a rimbalzarle tra le orecchie, come un sasso lanciato a pelo d’acqua sulla superficie liscia di un lago.

La pupa di cartapesta incominciò a danzare in mezzo alla piazza, sputando fuochi d’artificio in tutte le direzioni.

“Sai perché ti chiamano la mula?”, le aveva detto il figlio della spaccista, il ragazzino che vendeva il sale poco prima del fiume.

“È il soprannome della mia famiglia”, aveva risposto Teresa, le labbra umide e sporgenti.

“Quel soprannome è solo tuo. Ci vivi insieme e non l’hai capito. Se tuo padre non è mai tornato dall’America, tu come sei nata, per procura?”.

Teresa cominciò a fissare le cugine, a guardarle come non aveva mai fatto prima. Gli occhi puntati su una, poi sull’altra. Passò in rassegna i capelli, la forma della bocca, la posizione dei denti. Ogni dinastia di quel paese aveva un soprannome legato a un posto, a un mestiere, a un difetto fisico.

E la sua caratteristica qual era?

Teresa Tucci, 50 anni il 16 agosto, si avvicina all’ascensore e preme il bottone di chiamata. Le basta schiacciare il tasto numero tre perché quella scatola di metallo la riporti al suo passato una volta a settimana. Ora la madre vive in città, nella casa avuta in risarcimento per chiudere il cerchio. 

Teresa entra nella camera da letto e si rivolge alla badante, le dice lascia, faccio io. Nella stanza c’è odore di stantio e disinfettante. Sul comodino le compresse bianche della nuova terapia: il farmaco promette miglioramenti ma Teresa non ci crede. La mente della madre è un neon che sfarfalla e che prima o poi finirà per bruciarsi.

La vecchia è seduta vicino alla finestra come in un quadro, le spalle curve e ossute, la pelle quasi trasparente. La figlia prende a districarle i capelli, con la punta del pettine divide la testa in due sezioni. Non tocca mai sua madre, se non per metterle a posto la capigliatura. Da qualche tempo le vede incollata addosso l’espressione bovina di chi non sa più dare il nome giusto alle cose.

“Ma’, ti ricordi come mi chiamavano da piccirella?”, le chiede Teresa mentre la vecchia muove le mani nell’aria, come una direttrice davanti a un’orchestra fantasma. “La mula mi chiamavano. E tu sempre zitta ti sei stata”. Dalla finestra il riverbero della luce sbatte sul tetto ondulato di un garage. Teresa guarda fuori come se non lo vedesse. Non c’è più tempo per regolare i conti, eppure ogni volta si ostina a farle le stesse domande. Non sa perché, gliele fa e basta.

“La colpa fu di isso, ‘Ndonio stava in America”, la madre si stropiccia gli occhi chiusi coi polpastrelli di entrambe le mani.

“Isso? Tu manco mi volevi!”, Teresa insiste, non le ha perdonato niente.

“È che tenevo paura. M’ero fasciata la pancia stritta stritta.”

“Brava, cuscì tappavi la vocca alla gente. Se non vedeva, non poteva parlare.”

“Eh…”

“Chi t’ha aiutato a farmi nascere?”

“So scappata in campagna, sola come un cane. Una volta ho provato a mettere a posto il guaio coi ferri per fare la maglia”, ora la malattia è una tenia che si nutre del senso del pudore. “La mammana m’aveva detto come fare ma non ci so riuscita, tenevo troppi dolori”. Si preme la mano sul pannolone pieno di piscio, “a me Cristo mi deve perdonare!”

Teresa lascia andare il pettine sulla cute con più forza del necessario. Nessuna terapia le darà una madre migliore.

“Ahio! Fa’ piano, Santa Maria!”, la vecchia si gira come se all’improvviso fosse calato il sipario sul teatro della memoria. “Chi si tu?”, urla grattandosi forte la testa, “vattene, vattene via!”.

Il pettine scivola sul pavimento. Teresa lo raccoglie e lo infila in un cassetto. È una maestra che vorrebbe prendere a schiaffi l’alunna ma sa che non può farlo. Allora stringe i denti e fa per andarsene. Prima di uscire allunga i soldi alla badante. Poi apre la porta d’ingresso e raggiunge l’ascensore. Con l’indice schiaccia il pulsante che la porterà lontana da quel posto un’altra volta, fino alla prossima settimana.

“Signo’, scusate! Avete visto mia figlia?”. Ora sua madre è una vecchia spettinata che la fissa sul ciglio della porta. Ai piedi indossa una ciabatta soltanto. “È piccirella”, la saliva le cola lungo il mento, “glielo dico sempre che non si deve allontanare”.

“Sta sotto”, risponde Teresa soffiando forte l’aria dalle narici, “la mula sta giocando in piazza con le cugine”. Le porte dell’ascensore si aprono ma Teresa non si muove. “O forse dovrei dire con le sorelle”. 

La madre si asciuga la bocca, poi sbatte la mano aperta sulla porta, “Signo’!”

“Che c’è ancora?”

“Quella piccirella è mia figlia. Non permetto più a nisciun di chiamarla la mula”.

Teresa volta le spalle all’ascensore e prende le scale. Quando raggiunge la strada sente le gambe vibrare e in un attimo è di fronte al mare. Finalmente respira. Le sembra di non aver mai corso tanto veloce.

Un racconto di Samantha Mammarella

Illustrazione di Nora

Lascia un commento