L’ascensore

«Pensa che sarebbe la stessa cosa se fossero il doppio?».

«Come dice, scusi?».

«Dico: se i tasti fossero il doppio, per lei sarebbe lo stesso?».

«In che senso? Mantenendo lo stesso numero di piani?».

«Esatto».

«Mmh. Credo si creerebbe confusione».

«Certo. Ma mettiamo che i tasti siano doppi. E che soltanto uno di questi porti al piano desiderato mentre l’altro tasto, posto diciamo di fianco al tasto corretto, non funzioni, prenderebbe ancora l’ascensore?».

«Immagino di sì».

«Capisco. Saprebbe indicarmi qual è il limite oltre il quale sceglierebbe di non prendere più l’ascensore? Magari sarebbe sufficiente un altro tasto fantasma? Quindi avere due opzioni su tre di insuccesso? Oppure quattro, o cinque? O la preoccuperebbe di più un imprevisto, ad esempio un tasto che funziona ma porta in un piano a caso tra quelli che non sono da lei desiderati?».

B guarda lo specchio dell’ascensore; la luce paglierina del neon, la sua camicia di velluto a coste – la preferita –, il volto emaciato dell’altro uomo. Ripercorre i connotati con lentezza, quasi come se avesse uno scanner al posto degli occhi, ma niente. Lui quell’uomo non lo conosce. E allora possibile sia il nuovo affittuario dell’appartamento al quinto; un amico eccentrico di qualche condomino; oppure, e su quest’ultima ipotesi ci scommetterebbe, uno dei tanti svitati della città che per sbaglio si è infilato nel palazzo ed è finito in ascensore. B pensa che dovrà condividere con quel tipo altri quarantacinque, cinquanta secondi al massimo. Un tempo, dopotutto, marginale. E se pure le domande dello svitato siano senza senso sarebbe scortese non rispondere più. Oramai ha risposto alle prime, avrebbe potuto fare finta di niente, eludere le domande dicendo di avere un forte mal di testa o fingersi un turista straniero, ma non l’ha fatto. Ha risposto; e perciò, per educazione, lo farà ancora.

«Be’, chiaramente non sarebbe la stessa cosa. Ma sarebbe comunque meglio che salire a piedi. Almeno per i piani alti. L’ascensore fa risparmiare parecchio tempo. Viceversa se abitassi al primo, o al massimo al secondo, forse potrei scegliere di prendere le scale. Ma, forse, se abitassi al primo sceglierei più spesso di prendere le scale. Salvo quando si è appena andati a fare la spesa e bisogna portare su un peso considerevole».

«Mi pare un’ottima risposta, ma generalizzante. Rimanga sul suo caso. Se ci fossero gli imprevisti descritti qualche secondo fa prenderebbe o meno l’ascensore?».

«Lo prenderei. È sicuro. Abito al quinto».

«Benissimo. Lei abita al quinto, quindi preferisce salire su un ascensore difettoso piuttosto che fare un po’ di fatica in più con le scale. Scale che tuttavia le darebbero un’opzione certa di arrivare al piano desiderato. Ora invece mi dica, lo so che stiamo ragionando per assurdo ma la prego di essere il più concentrato e logico possibile, secondo lei se avessi fatto la stessa domanda sessant’anni fa a un uomo della sua stessa età, estrazione sociale e nelle sue identiche condizioni fisiche, che ha abitato in questo palazzo, o meglio ancora nell’appartamento dove vive lei adesso, quest’uomo come avrebbe risposto?».

Sono passati all’incirca quaranta secondi da quando B si è imposto, per cortesia, di continuare a rispondere. Lo svitato, le braccia penzoloni lungo il corpo, i capelli laccati da un lato e una Lacoste turchese degli anni Ottanta, non ha sbattuto le palpebre nemmeno una volta. B comincia a sospettare sia sotto l’effetto di stupefacenti. E che tutto quel teatrino altro non sia che una bizzarra messa in scena volta a confonderlo; a confondere per poi attaccare al portafoglio o alle chiavi di casa. B è scosso da un brivido. Si irrigidisce, serra le dita sul palmo e risponde fuori dai denti: «Ma chi è lei? Perché mi assilla con queste domande prive di senso?».

«Non c’è bisogno di scaldarsi. Sono solo curiosità. Mi faccia la cortesia, risponda. Tra poco l’ascensore si fermerà al piano e noi non ci incontreremo più».

B si sente in colpa per la sfuriata, si scusa, si sente accettare le scuse, risponde: «Credo che, per le stesse motivazioni elencate in precedenza, l’uomo di sessant’anni fa risponderebbe come le ho risposto io. Prenderebbe l’ascensore».

«E invece si sbaglia».

«Trova?».

«Naturalmente. Un uomo di quell’epoca, nella migliore delle ipotesi, avrebbe risposto di scegliere le scale. Questo ammesso che fosse un gentiluomo; perché, se non lo fosse stato, al più alla mia seconda o mettiamo terza domanda incalzante mi avrebbe mollato un pugno sul naso. E sa perché lei, e la ringrazio di questo, non l’ha fatto? Perché ci siamo rammolliti. Oh, può dirlo forte. Siamo dei rammolliti e dei codardi. Ed è per questo che continuiamo a prendere l’ascensore, anche quando è palese che sia preferibile abbandonarlo in favore delle scale».

L’ascensore si ferma al piano. Le porte si aprono. B guarda un’ultima volta lo svitato. Non dritto negli occhi, mira alla figura. Poi sospira e fa per scendere.

«Non si intristisca e pensi a quello che le ho detto».

«Lo farò, non si preoccupi. Arrivederci».

«Non lo farà» pensa lo svitato mentre preme lo zero del piano terra.

Un racconto di Simone Carucci

Illustrazione di Melissa Brusati

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