Terzo piano

Si accodò alla donna che entrava in ascensore. Questa l’avvertì che andava al terzo piano, il dito già sul pulsante. Lo smalto dell’unghia era color rosa antico, lucido e levigato come una pietra dura. Deborah lesse il nome del reparto accanto al pulsante e annuì. Portava a mano un borsone verde, guadagnato con i punti della spesa, sul quale campeggiava il nome del supermercato in lettere cubitali rosse. Lo sentì pesante sebbene fosse quasi vuoto. Anche la donna aveva una borsa da viaggio, era di morbida pelle color sabbia.

Con due maglioni sotto la giacca trapuntata, come ogni mattina sua madre era uscita alle quattro per raggiungere gli uffici delle banche. Deborah partiva più tardi. Lavorava anche lei in una ditta di pulizie, arrampicandosi sulle scale dei condomini. Quel giorno aveva preparato latte e biscotti solo per la sorellina, e riempito il borsone. Pigiama, giacchino in pile, ciabatte, due mutandine, un asciugamano, burro cacao, crema, fazzoletti di carta, salviette umidificate. Aveva già avvisato la madre che non sarebbe tornata a casa a pranzo. Andavano a mangiare la pizza, le aveva detto. Un compleanno.

L’ascensore saliva senza scosse, i numeri dei piani si illuminavano: 0, 1, 2… Deborah si era appoggiata alla parete d’acciaio, come per sostenere il peso di quel giorno. A testa bassa, fissava un bottone lucido dell’ampio cappotto color cammello della donna. Le sembrò di sentirne il calore, a differenza del suo giaccone, acquistato in una bancarella al mercato. Com’era possibile che anche la donna fosse lì. Poteva capire che lei, così scema e sfigata, avesse fatto casino, ma quella signora… Era pure fidanzata. Un anello con un diamante le brillava sulla mano.

Da quando aveva ricominciato ad abbuffarsi di schifezze, sua madre la sgridava. “Così non ti vuole nessuno. Vuoi finire come me?” Invece c’era qualcuno che la desiderava, anche se adesso non ne era più sicura. A ogni modo sua madre non se ne sarebbe accorta, quando tornava dal lavoro crollava sul divano di fronte a serie televisive che continuavano a ripetersi. “Passo la vita a pulire” diceva, “sono stufa di farlo anche a casa.” Deborah rassettava, passava lo swiffer e lavava i pavimenti, mentre la sorellina – era così brava – faceva i compiti da sola sul tavolo della cucina.

Quando uscirono dall’ascensore, nel pianerottolo di fronte alla porta chiusa del reparto c’erano quattro persone. Deborah si sentì come se un filo la tirasse indietro. Anche la donna che era in ascensore con lei si bloccò. Una ragazza pallida e un ragazzo vestiti di nero si tenevano per mano, ai loro piedi era appoggiato uno zainetto di scuola. Le altre due vicino alla porta erano probabilmente madre e figlia: identica bocca piccola senza labbra. La madre, che portava un borsone da palestra in tela jeans, fissò Deborah come chi non si fa mettere sotto da nessuno. La donna dell’ascensore chiese quando avrebbero aperto. “Alle sette” rispose la madre. “Noi siamo qui dalle sei.” Il ragazzo controllò l’orologio.

Due mesi prima, nella densa ombra notturna degli alberi del parcheggio, Deborah aveva detto all’uomo del ritardo.

“Ma non prendevi la pillola?”

“Un giorno sono stata male, ho vomitato… forse…”

“Ma sei tutta scema?” Lei si era stretta nel sedile. “Cazzo!” aveva urlato l’uomo, sbattendo i pugni sul volante. Al buio, Deborah vedeva solo il luccichio dei suoi occhi, e sentiva che sbuffava; come un toro che sta per caricare, aveva pensato. “Cazzo!” I finestrini e il cristallo si erano già appannati.

Guardando in basso, Deborah non riusciva a distinguere i suoi piedi, era come se galleggiasse nell’oscurità. Per un po’ erano rimasti in silenzio. E il silenzio sembrava proteggerla, annullando la brutta cosa che le stava capitando. Quando lui aveva ripreso a parlare, le era sembrato di ridestarsi da un sogno.

“Sei troppo giovane per prenderti questa responsabilità. E io, lo sai, ho una famiglia sulle spalle, una moglie e un figlio piccolo. Non posso aiutarti… voglio dire, non posso venire con te. Vorrei, ma è davvero impossibile. Siamo stati attenti a non far sapere niente a nessuno. Mi capisci, vero? Vale per me, ma anche per te. Posso darti dei soldi, se vuoi… per le spese, dico. Dopotutto, sei tu che hai fatto casino. Io mi fidavo. Come potevo sapere che… Se mi avessi avvertito, non l’avremmo fatto. Cazzo! Che sfiga però…”

Dopo quella sera si erano sentiti due volte al cellulare. Le aveva ripetuto di andare al consultorio, e di non fare il suo nome.

Alle sette e due minuti, la madre suonò il citofono accanto alla porta. Dopo un breve scambio, venne aperto e poterono entrare. Deborah era rimasta vicino alla donna dell’ascensore. Quando tenne la porta aperta, dopo essere entrata nel corridoio bianco, le sorrise timidamente.

La donna la ringraziò, sfiorandole la punta delle dita ancora appoggiate alla maniglia.

Un racconto di Maurizio Donazzon

Illustrazione di Chiara Zucchelli

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