Sudore

La percezione del caldo aumenta con l’età. Da bambino corri, giochi e sudi, fa parte delle cose.

La station wagon di mio padre non aveva l’aria condizionata, per cui viaggiavamo con i finestrini sempre abbassati, anche in autostrada. Ogni estate andavamo vicino a Livorno, a trovare gli zii, in una casa non bella ma comoda e che dava sul mare. Mia madre, che era adulta e soffriva molto il caldo, si aiutava con un ventaglio e lasciava che i capelli sbattessero sul poggiatesta, sospinti dal vento rumoroso e afoso dell’alta velocità.

Io e mia sorella cercavamo di intrattenerci e ci piaceva, in particolare, fare un gioco che avevamo inventato: vince chi mangia più lentamente. Sfilavamo con dovizia certosina il salame ungherese sudaticcio di carta stagnola dalle fette di pane gommoso e lo mangiavamo morso millimetrico dopo morso millimetrico, sbirciandoci da dietro il séparé improvvisato di valigie e sacche da mare che ci divideva sul sedile posteriore. La regola era infatti una sola: non guardarci mai, affinché nessuna delle due potesse farsi condizionare dall’avanzamento del pasto dell’altra. Il potenziale del gioco era pressoché illimitato poiché, di fatto, non aveva fine. Questo ci faceva arrivare alla resa nelle maniere più imprevedibili: ci annoiavamo e semplicemente passavamo ad altro, venivamo interrotte da un agente esterno – mio padre che insultava un automobilista, mia madre che ci chiedeva di passarle un po’ d’acqua dalla borsa frigo – oppure una delle due si arrendeva, ammettendo la sconfitta e assegnando il punto all’altra.

Era un gioco completamente privo di scopo, senza un metodo preciso di esecuzione né una logica da seguire, ma ci piaceva e piaceva anche ai nostri genitori perché, per giocare, dovevamo tenere la bocca chiusa.

All’altezza di Capalbio, che segnava la quasi metà in termini orari del nostro viaggio, mio padre metteva la freccia e ci fermavamo all’autogrill per mangiare e fare pipì.

Mia madre, oltre a soffrire molto il caldo, non aveva pazienza. Utilizzava mia sorella, che era piccola e sapeva piangere a comando, per saltare la fila al bagno. Nessuno voleva sentire i suoi lamenti e la lasciavano passare. Mia madre faceva la faccia contrita mentre superava tutte le altre signore, ma in realtà era contenta e per premiare mia sorella le regalava sempre ciò che desiderava e lei desiderava sempre le Cipster che, oltre a essere buone, erano perfette per il gioco del mangiare lentamente. Bastava prenderne una manciata e metterle sulla punta della lingua, fino al loro completo scioglimento.

Abbiamo aperto il pacchetto e contato otto Cipster a testa. Abbiamo spalancato le bocche e le abbiamo posizionate sulla lingua, una dopo l’altra. Ci siamo rincorse tra gli scaffali dell’autogrill. Mia sorella poteva intravedermi: ero già alta abbastanza da spuntare tra il banco frigo e lo scaffale dei peluche. Lei faceva capolino di tanto in tanto, mi faceva la linguaccia e mi faceva vedere le patatine. Siamo andate a giocare fuori.

Mia madre aveva occupato il tavolo davanti alla vetrina. Sopra di lei, il bocchettone dell’aria condizionata. Mio padre l’ha raggiunta con due panini con la cotoletta surgelata e dei succhi d’arancia, compresi nel prezzo del menù.

Mia madre si godeva il getto d’aria fredda, il vestito alzato fin sopra le ginocchia, le mani intorno alla nuca sudata, gli occhi chiusi. Mio padre le diceva qualcosa, parlando a bocca piena. Non potevo sentirlo, ma chiaramente si stava lamentando. Mia madre replicava. Entrambi i palmi sul tavolo. La vena in fronte aumentava di volume.

Mia sorella intanto correva, giocava e sudava.

Mio padre si è alzato dal tavolo. È andato verso lo scaffale dei giornali. Mia madre aveva il viso tra le mani. Mio padre è tornato da lei, le si è chinato accanto e le ha detto qualcosa vicino all’orecchio, mentre con lo sguardo si è rivolto verso di noi.

Ho stretto i denti e un paio di Cipster mi sono scivolate giù in gola. Le altre, che la lingua schiacciava sul palato, erano quasi appuntite. Le ho premute sulla carne fino a quando non ho sentito il sapore di rame del sangue.

Qualche tempo dopo avrei capito che mio padre provava imbarazzo per mia madre e che forse non l’amava più già da qualche anno.

Quando siamo arrivati alla casa degli zii al mare, circa un’ora e 54 minuti dopo, mia sorella dormiva. L’ha svegliata mia madre.

Si è girata verso di me e, dopo un attimo, mi ha fatto la linguaccia. La poltiglia di Cipster era ancora lì.

«Ho vinto io!» ha detto, poi ha deglutito.

«Hai vinto tu».

L’estate era appena iniziata. Dalla successiva, avrei iniziato a soffrire anche io il caldo.

Un racconto di Chiara Pacini

Illustrazione di 2-rxst

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