Nicola

Una maniglia di ottone. Lucente, perfetta sullo sfondo bianco della porta. Fuori, campagna.

Uccellini che cinguettano sull’albicocco. Ovunque polvere immobile della terra arida. Papà dice che è colpa della siccità. Sole, quello delle due del pomeriggio del luglio 1978, caldo appiccicoso. La tv dice che in Valtellina c’è stata un’alluvione. «E qua sembra di stare nel deserto».

Dietro il cassettone dell’armadio ci sono i fucili che io non posso toccare. Sotto il pavimento del granaio c’è una stanza segreta in cui io non posso entrare.

Odore di caffè della Gaggia automatica, nuova, bellissima. «Vai a giocare in camera tua». Il caffè esce: una tazzina, due tazzine. Io vado: ho un piano infallibile.

Ho sette anni e non so nulla dei miei genitori.

Marzo 1978: «Se mi fate un fratello lo ammazzo». Mamma ha sorriso e ha detto che essere una sorella maggiore mi piacerà. Posso scegliere il suo nome.

Ma ora siamo a quel luglio. Non c’è vento. È tutto immobile e sudato. Per dare il via al mio piano impiego dieci secondi netti. Con i piedi scalzi sguscio in camera loro: terzo cassetto del comò. Di fianco alle mutande c’è la scatola di latta. Royal Dansk, paesaggio innevato, albero di Natale, pupazzo di neve e uomo vestito da montagna; dentro nessun biscotto ma rocchetti, ditali, uncinetti e aghi. «Fai attenzione che poi ti pungi, ti prendi il tetano così stiamo a posto». Io questo forziere non lo posso toccare. Mamma ha la pancia enorme e le caviglie gonfie. Sputa saliva in un fazzoletto perché quando sei incinta tutto ti fa schifo. «Hai già scelto il nome?» Io quel mostro che cresce dentro mia mamma non lo voglio chiamare.

Prendo il filo. Cotone bianco e spesso. Niente tetano – se ti viene i muscoli diventano rigidi, sudi e poi muori. A qualcuno è successo per davvero.

Mio padre beve il caffè alla finestra che dà sul giardino. Dal vialetto arriva un fuoristrada grigio e lercio. Alza molta polvere. Il motore non lo sento perché è troppo lontano. Sono passati quarantatré anni e il rombo del pick-up mi sfonda la testa.

«Non c’è niente di cui preoccuparsi».

Ho sette anni, sto uscendo dalla camera dei miei genitori, il cotone nascosto nel pugno. Faccio il percorso a ritroso: sguscio nella mia stanza. Anche qui c’è un posto segreto. Per sollevare la botola devo infilare il dito nel buco che c’è sul pavimento – seconda mattonella sotto la scrivania. L’ho mostrato a Sara e lei non ci è voluta entrare.

«Hai scelto il nome per il fratellino?». Io voglio la bambola che dice mamma, voglio quella che sbrodola, voglio i cocci per giocare alla cucina, voglio la Barbie, voglio un cane, un cucciolo di pavone, un frigorifero in miniatura tutto mio. Ma no, non voglio un fratello.

Se a sette anni non hai ancora cambiato nemmeno un dente a scuola ti prendono in giro. È così e basta. Ornella Lo Pascio ne ha persi già cinque e un altro le dondola a più non posso.

Ho caldo. Il fuoristrada viene verso casa nostra. Amici di papà. Gli amici di papà hanno sempre macchine grandi e vengono a casa nostra. Fumano sigarette, bevono l’antibiotico. «Dammi un po’ di antibiotico». E mamma gli versa il vino. Mi chiamano Minuccia anche se il mio nome è Mina come la cantante. Da grande voglio vincere Sanremo. A sette anni non so ancora niente. Nemmeno oggi non so ancora niente.

Vado davanti allo specchio dell’armadio e passo il filo intorno al dente grande. Nodo. Stringo. Altro nodo per sicurezza.

Il cotone si tinge di saliva rosa. Classe seconda B: se c’è il sangue è anche meglio.

Da fuori il rumore di un motore che si spegne, sportelli che si chiudono, qualcuno che scende.

Lego l’altra estremità alla maniglia. «Va’ di là». È mio padre che parla.

Piego la maniglia. Ottone lucido. Dallo spiraglio che si crea vedo mamma con la faccia di un morto vivente. Papà è di spalle, occhi alla finestra. Le tazzine di caffè sono sul tavolo. «Nasconditi. Prendi la bambina e nasconditi. Non uscire per nessun motivo». Mamma fa no con la testa.

Perché funzioni devo dare un colpo deciso alla porta. Un calcio e sarà tutto finito.

Uno. Due. Controllo. Trattengo il fiato. Uno. Due. Mamma corre verso la camera nel momento esatto in cui io dico tre e do un calcio fortissimo. Irruzione. Rumore di spari. Tanti. Una raffica. Un grido che non è il mio.

Rimango immobile perché forse sono morta.

Non sento nessun dolore. Il filo è troppo lungo e il dente è al suo posto. Sulla porta della mia stanza ci sono due buchi.

Rumore di passi. «Va’ a controllare nelle altre stanze» dice la voce di un uomo che non è papà.

Immobile. Uno. Due. Tre. Il dente al suo posto. Passi. Che cosa è successo, spari, che cosa è successo. Passi, i miei. Scalza, silenziosa, fino alla scrivania. Occhi fissi alla porta che non si deve aprire. Seconda mattonella. Nasconditi. Prendi la bambina e nasconditi. Il fratellino nella pancia, se mi fate un fratello l’ammazzo. La botola. Buio. Ore, non so quante.

Sono passati quarantatré anni da quando sono venuti a tirarmi fuori. «Stai tranquilla, adesso ci siamo noi».

Incisivo bianco impiccato su maniglia d’ottone. Minuscolo. Trascurabile.

«Lo voglio chiamare Nicola» ho detto.

Un racconto di Valentina Santini

Illustrazione di Anna Seghedoni

One thought on “Nicola

Lascia un commento