Alla cenere

Ora ricordava tutto. Ora tutto gli arpionava la pelle lasciandoci sopra scie di vuoto, tutto gli frugava gli spazi tra le costole, ora il tempo mordeva l’orologio che, per tutta la vita, aveva tenuto nel taschino. Ora ricordava lei.

Non c’era più scampo, aveva detto il dottore, guardando un punto oltre la sua schiena, come se lui non fosse già più lì. Non c’era cura per quel grumo di cellule che gli premeva nel fondo dei polmoni, impedendogli di respirare. Che piano piano si mangiava una lancetta dell’orologio, ogni giorno un nuovo minuto, una nuova ora, ridendo in faccia ad ogni cura.

“Quanto?” aveva chiesto lei. Quanto e aveva posato una mano sulla spalla di suo padre, le ossa che avrebbero voluto fondersi con le sue, tenerlo lì, in quella stanza. Quanto e suo padre era un lamento di ricordi tutti stretti intorno al petto, un gomitolo di vita.

Il dottore non aveva risposto.

La luce del sole nelle pieghe del suo vestito, sopra la pelle diafana delle ginocchia quando lui ci passava le dita. I capelli di mora che le accarezzavano l’incavo del collo, come serpi lenti, impigrite dai riflessi della sera. L’odore del fuoco a inizio ottobre, quando bruciavano le sterpaglie, il fumo lento che scavava la gola, la seccava.
“Se tu fossi un fiore,” le aveva detto: “saresti un mughetto”.
Lei aveva riso, con quei denti di zucchero, tutti in fila, bianchi come colombe. Pensava sempre alle colombe, quando la vedeva ridere, e si stupiva ogni volta che i suoi denti rimanessero fermi, che non sapessero spiccare il volo. Come aveva potuto lasciarla andare?


Quando fu sola sprofondò sulla sedia e si coprì gli occhi con le mani. Avrebbe voluto piangere, gridare, ma restò ferma. Papà, ripeteva sottovoce. Papà.
“Portami a casa”, le aveva detto.
La città si era accartocciata su sé stessa, le luci al neon che ricalcavano ora i bordi di un vuoto, di una terra straniera. “Portami a casa, bambina.”
Lui in città ci era arrivato a vent’anni, con le scarpe rotte e il petto leggero, il vestito della domenica piegato con cura nella piccola valigia, qualche lira sparpagliata nella tasca. La fame era stata la sua compagna di giochi, gli aveva livellato lo stomaco, aveva messo la fretta infuriata degli ultimi nelle sue scarpe, l’aveva costretto a partire. Ora gli voltava le spalle, lasciando in lui un vuoto, perché seppur l’aveva odiata, gli era stata familiare. Ora non aveva altro.

Le foglie fragili degli aranci, il profumo di limoni che schiumava per la via. Lo teneva per mano, la sua pelle aveva un respiro delicato, sinuoso. Ballavano timidi tra i baracchini della fiera, il profumo delle mandorle tostate nei capelli. La campagna li avvolgeva, con le sue grandi braccia di polvere, cantava i canti della loro fatica, ma stava morendo.
“Resteremo sempre insieme, non è vero?” gli aveva detto lei, davanti allo zucchero filato. “Sempre io e te, e le spighe alte del grano.”
Lui non aveva risposto. La campagna era una madre senza occhi, si svuotava lentamente, non aveva più parole per i suoi figli. Li tormentava nel sonno, pregandoli di non andare, ma non c’era più lavoro, c’era soltanto l’odore della fame, il passato che si era adagiato sui tetti sbilenchi delle case, la fiera che ogni anno si faceva più modesta, fino a scomparire. Il progresso, dicevano. Il progresso a cui Madonna di Grano soccombeva, inesorabile.

Girò lo zucchero sciolto nella tazzina, lo guardò scivolare sulla ceramica.

Sarebbero partiti l’indomani. Gli avrebbe sistemato un cuscino sul sedile, una coperta sulle gambe, gli avrebbe chiesto spesso come si sentiva e lui, con le ultime forze, avrebbe alzato il volume della radio su quell’unica cassetta di Gaetano che amava così tanto. Avrebbero cantato piano, tenendo il tempo per gola, sputandogli in faccia. Non scorrere, non andare via, bastardo. Sarebbero arrivati alla campagna, al paese di suo padre. Sarebbe tornato a quella madre col seno di grano, con gli occhi rossi della sera.


La leggenda dice che il mughetto è nato dalle lacrime delle Vergini, ai piedi della croce di Cristo. Però è velenoso, non si può mangiare. Anche lei era velenosa, anche lei lo uccideva con la voglia di cacao sotto la clavicola sinistra. Erano andati nel loro posto segreto, uno spiazzo d’erba sulla strada dei campi. Nel fosso di fianco crescevano mughetti bianchi e lui ne strappò uno, lo chiuse nel palmo. “Io parto” disse lui. “Vieni”, aggiunse timido. Sapeva che non lo avrebbe seguito. Sapeva che lei odiava la città. Sapeva che era figlia come lui della campagna, ma aveva sangue più fedele, più agguerrito. Lei gli infilò un mughetto nella tasca della camicia. “Buona fortuna.”


Arrivarono al tramonto. Lui chiuse gli occhi, respirò le spighe, i filari di mele rosse, gli ulivi. Si fece accompagnare alla strada dei campi, cercò con gli occhi il fosso dei mughetti. Non lo trovò più e i suoi occhi ballarono un poco, prima di cadere. Non era rimasto più niente delle corse al fiume, delle ginocchia nude, dei gatti addormentati sui muretti. È giusto, pensò lui. È giusto, ti ho tradita.
Si sedettero sul ponticello che una volta passava sul canale, ora coperto di terra, e guardarono il tramonto. Il tempo lì era fermo, fermo ad aspettare il ritorno di tutti i suoi figli. Lì era nato, lì era tornato per morire. Perché nasciamo dalla cenere, pensò.
Alla cenere torniamo.

Un racconto di Morena Pedriali

Illustrazione di Nora

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