L’ombra

Come al solito mi ha chiamato lei. Sono stato sempre fin troppo timido nelle questioni sentimentali. Sei tu?, ho chiesto ancora una volta sorpreso di sentire la sua voce come non riuscissi a credere che la sua voce rappresentasse di nuovo una specie di rinascita per il mio corpo. Devo essere sempre io a chiamarti però, mi ha detto atteggiandosi imbronciata, ma stemperando subito il finto astio. Non hai sentito la televisione?, mi ha domandato a bruciapelo. No, non ho televisione qui in campagna. E la radio?, mi ha chiesto sorpresa. Non sento la radio, né ho internet, né leggo i giornali, le ho detto anche se avevo un po’ di vergogna, adesso lo capivo, di essermi allontanato da lei e dalla città, essermi allontanato da tutti in modo così frettoloso, quasi fossi un ladro. Non volevo soffrire, ma alla fine si soffre dappertutto se non hai quello di cui hai bisogno. E io ho bisogno di lei. Quando comincio a parlare con lei a un certo punto la voce mi s’incrina dall’emozione; ha fatto un sospiro che non riuscivo a comprendere. Avrei dovuto guardarla in faccia, ma avevo i pensieri troppo confusi e il petto mi si chiudeva. Ha raccontato quello che è successo a Roma e a Milano. Manifestazioni contro il lockdown imminente. Ma io immaginavo soltanto il suo corpo nudo quando abbiamo fatto l’amore, la sua lingua che mi faceva il solletico dappertutto. Dopo qualche giorno, mi disse che non avrebbe lasciato il suo uomo. Troppo tempo che stiamo assieme, aveva continuato cercando in quel momento di non guardarmi negli occhi. A quel punto mi iniettò dentro, nelle vene, la dose fatale di gelosia che non mi lascia più in pace. Durante la notte, nei sogni che faccio, la vedo di spalle allontanarsi piano piano, senza che possa fare nulla. Ho le braccia, le mani deboli quasi fossero di pezza.

Fa freddo lì in campagna?, mi ha chiesto immaginandosi anche la risposta. Sto qui in Abruzzo, sull’Appennino, a vedere se i pensieri mi si schiariscono un po’. No, oramai mi sono abituato, le ho risposto tentando di riprendermi dall’emozione, comunque, mi copro bene. Ho tutto il necessario per andare avanti, ho continuato. Il suo perché non so se l’ho sentito veramente o è stata soltanto la mia immaginazione. Ho detto cosa?, ma non sentivo più la sua voce e il display mi ha rivelato che non c’era più connessione. A volte succede in queste zone di campagna, incassate tra le gole delle montagne. Ho cercato di riprendere la comunicazione ma sentivo un suono distorto che mi faceva stare ancora più male. Mi sembrava che quel suono mi parlasse, mi dicesse che ero soltanto un povero stronzo a rinchiudermi qui. Sarei dovuto salire in macchina e cercare una zona dove prendesse il segnale. Oppure tornare in città e fare una pazzia. Chiederle di sposarmi. Mi sono messo un giaccone e sono uscito fuori. Ho preso a camminare.

Il cielo era buio, solo qualche stella a cui non riuscivo nemmeno a dare un nome, mannaggia a me. Che invidia quelli che sanno descriverti l’intera volta stellata, e non solo, riescono pure a nominare tutti gli alberi e i fiori. Tutta la natura che hanno attorno. La mattina con i colori al loro posto dovrei andare in giro con una voluminosa enciclopedia e tentare di classificare la terra qui intorno. Io sono soltanto un maledetto cittadino, uno per il quale, fino a qualche tempo fa, un fiore era semplicemente un fiore, a parte le margherite e le rose. Nei romanzi di Volponi ogni fiore, ogni pianta che incrocia per le strade di Urbino ha un nome preciso, un nome con cui cercare di ordinare il mondo.

Ho continuato ad andare per il prato buio con il cellulare acceso che mi permetteva di vedere appena le mie scarpe. La commessa dell’alimentari mi ha detto che in questa zona sono stati avvistati degli orsi, orsi marsicani. Qui non siamo in Trentino, ha continuato lei, sappiamo come comportarci con loro. Non li imprigionano, non c’è il rischio di ucciderli. Sanno come comportarsi. Bisognerebbe sapere sempre come comportarsi.

Mi sono lasciato il casolare alle spalle. Le scorse settimane ho cominciato a dissodare la terra, ho preso a rendere le mie mani sporche, graffiate dal lavoro nei campi. Le sento molto più gonfie nel corso della giornata. Fanno male alla fine del lavoro, ma ancora non basta. Voglio che il mio corpo mi dica cosa fare, cosa pensare. Il corpo non mente. Quando hai una stanchezza così reale tutto il resto passa in secondo piano. L’altro ieri un contadino mi ha chiesto se gli volessi comprare delle galline. Era come se qualcuno mi avesse proposto di passare il resto della vita qui, incassato tra le montagne, forse al riparo dal dolore del mondo. Ci devo pensare, gli ho risposto.

Mi son seduto sull’erba quasi al limitare del bosco. Ho posato il cellulare ancora acceso davanti a me quasi fosse un fuoco con cui ristorarmi. Ho visto una massa enorme che usciva dagli alberi, prima timida, poi sempre più baldanzosa, quasi sfacciata. Ho cercato di non muovermi. L’ombra immensa, gli occhi luccicanti come le stelle lassù in cielo, ha appoggiato la zampa portentosa sopra il cellulare, poi ha iniziato a spostarlo con decisione e quindi a portarselo via facendo leva anche col muso. Come volesse giocarci. L’ho guardata allontanarsi e ho cominciato a ridere. Poi l’ho seguita.

Un racconto di Fabio Cozzi

Illustrazione di Francesca Paola Turco

One thought on “L’ombra

  1. Capitò un mese fa, se non vado errato.
    Mi ritrovai, per mera curiosità probabilmente, a leggere Ian Mcewan (un affare di cui tutt’oggi non mi pento ovviamente).
    Secondo lui, o almeno secondo l’idea ch’egli ha avuto modo di farsi nel corso delle sue esperienze di vita (magari attraverso le parole degli altri) “soltanto al mattino presto, mani in terra e brezza dell’aria sfuggente, dopo aver portato a termine del duro lavoro, si può affermare di aver vissuto una giornata produttiva, che può dunque concludersi con del meritato riposo e la compagnia di qualche amico fidato”.
    Suppongo che si possa dire lo stesso del tuo protagonista (impressione personale).

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