Come si costruiscono le case

Se c’è una cosa che mi mette ansia, quella è la campagna. Anche le montagne non scherzano, ma la campagna, be’, la campagna è molto, molto peggio perché non c’è nulla, assolutamente nulla, e tu hai l’impressione di perderti dentro a quel nulla. È un’enorme distesa di colori. Cosa c’è di peggio delle distese di colori? In autunno, per esempio, è tutto pieno di foglie rosse e gialle e arancioni e io odio il rosso il giallo e l’arancione: sono colori falsi che si allargano con la scusa della bellezza paesaggistica. Quando avevo otto anni mio padre mi regalò un tavolo arancione a forma di tavolozza da pittore con un enorme e scomodissimo buco in cui gettavo fogli accartocciati che finivano in un bidone, arancione anche quello, con un coperchio di plastica a forma di muso di tigre.

Questo tavolo è veramente brutto. E soprattutto porta sfiga e mi fa male. Perché è arancione. Forse, a pensarci bene, è quasi peggio della campagna. Me lo sono sempre portato in giro, però, questo tavolo orrendo arancione a forma di tavolozza. Per dimostrare che so convivere con la sfiga, che sono forte, che non sono superstiziosa, che non ho paura di niente. Ma forse non è tanto vero, infatti l’ho tappezzato di fotocopie di Ovidio perché va bene la sfiga, ma non esageriamo. Il colore si intravede perché non sono brava a tappezzare le cose e non sono brava a tagliarle e non sono brava ad appiccicarle e non sono per niente precisa.

Questo tavolo porta così tanta sfiga che ora mi tocca trasferirmi in campagna dove ci sono queste distese infinite di rosso arancione e giallo. Davanti a me c’è un terreno che aspetta di diventare casa, forse andrebbe annaffiato o boh, non so mica come si faccia. In paese ci sono un bar, un ristorante e un macellaio, un cimitero e case, sì, tantissime case. Qui le case si costruiscono, questo lo so per certo perché me l’hanno detto. Una volta ho visto un uomo che correva per la campagna e chiedeva permessi e raccoglieva firme e c’era una donna che annaffiava il terreno e forse è così che si costruiscono le case, qui in campagna: chiedendo permessi per annaffiare un terreno dal quale un giorno spunterà una casa. Qui c’è la terra. Sì: non c’è l’asfalto. E io amo l’asfalto. L’odore di piscio della città. Le stazioni. Il rumore delle auto e i bar brulicanti di gente sbronza. In città nessuno annaffia i terreni, in città nessuno chiede permessi, nessuno raccoglie firme per poterlo fare: in città cammini coi tacchi sull’asfalto e rincorri gli autobus blu che non ti aspettano mai e i vicini non li conosci e sei contenta perché sono immancabilmente degli stronzi, i vicini, in città, e quando cammini se qualcuno ti parla è solo perché ci sta provando e allora è tutto chiaro e tu lo sai e loro lo sanno e nessuno conosce il tuo nome e puoi mandare tutti a fanculo, in città. In campagna no. In campagna devi fermarti a salutare e ti presenti ma loro sanno già chi sei e non capisci se ci provano perché qui la gente si parla anche per altro e allora devi concentrarti e ci sono mille regole e mille cose da dire e altre mille cose che non devi assolutamente dire sennò si sparge la voce e ti fai una brutta reputazione e che figura che hai fatto e devi dire che si sta benissimo, qui in campagna, c’è una pace, qui in campagna, e proprio non lo so come facevo a vivere in città, una volta.

Fa freddo e davanti a me c’è una distesa di foglie rosse e gialle e arancioni e io sono qui che aspetto, con il mio orrendo tavolo tappezzato. Aspetto che mi diano un innaffiatoio per iniziare a costruire la mia casa in campagna, ma non arriva nessuno e mi consolo pensando che almeno avrò due caprette, Falsirena e Armida, capre nane perché non puzzano e non le devo mungere e non si accoppiano e io non so davvero perché abbia ancora questo tavolo, qui con me, e chiedo al vicino che fuma poco più in là se mi aiuta a buttare via questo tavolo e lui mi chiede se sono quella del terreno e io dico sì, sono quella del terreno e lui sa già delle caprette ma non dei nomi e mi chiede perché voglio buttare via il tavolo. Gli dico che è vecchio e porta sfiga, è brutto e voglio liberarmene, ma lui non capisce e io gli dico se vuoi te lo regalo e lui mi dice no grazie, non mi piace, e allora perché dovrei tenermelo io, scusa?

Lui ride ma non ci sta provando e ne approfitto per chiedergli come si costruiscono le case, qui in campagna, e lui mi dice che servono tantissimi permessi e io gli chiedo se servono per annaffiare e lui mi chiede in che senso, per annaffiare, e io gli dico che ho visto una donna, una volta, annaffiare il terreno mentre un uomo chiedeva permessi e raccoglieva firme e lui ride ancora e dice che non c’entra niente e io gli dico sì invece perché poi è cresciuta la casa proprio dove la donna aveva annaffiato e allora è ovvio che funziona così. Il vicino mi chiede se ce l’ho anche io un uomo e allora forse adesso sì che ci sta provando o forse vuole chiamare la polizia ma prima vuole assicurarsi che sia davvero chi pensa che io sia e gli dico che mio marito è in giro per la campagna a chiedere permessi e lui mi dice che va a prendermi un innaffiatoio. Mi siedo sul tavolo, lo odio. E aspetto.

Un racconto di Maddalena Fingerle

Illustrazione di Melissa Brusati

Lascia un commento