Un buon gesto

Il motivo per cui la nonna ha lanciato un martello contro lo schermo è stato Lilli Gruber – la gelosia. Le ho detto che non ha risolto il problema, ha solo rotto un televisore; Lilli Gruber in persona, da qualche parte, è ancora viva. Mi ha risposto che lo vuole ben sperare: non è che in famiglia siamo tutti assassini.

Il nonno ha fissato il cratere a lungo, tanto che ha rischiato di sprofondarci dentro. È rimasto in piedi, incredulo, da quando sono arrivato a quando la nonna ha ripreso a bollire chiamando puttana la Gruber: circa un’ora. Si è poi giustificato dicendo che aveva messo il mastice sotto il tacco e doveva fare peso perché la suola si incollasse a dovere.

Alla fine la nonna si è calmata e mi ha chiesto scusa. «Le poche volte che vieni ti facciamo lo spettacolo». Le ho detto di non preoccuparsi, di pensare ad altro. Le ho promesso che la settimana dopo sarei tornato a trovarli con un televisore nuovo, ma mi ha detto che è meglio di no, non hanno bisogno di quella diavoleria.

«Fai una buona azione, porta questo al prete» mi ha poi detto, consegnandomi una stecca di sigarette.

Sulla porta, le ho chiesto se suo figlio le mancasse e mi ha domandato quale. Ho specificato: mio padre. «Farò peccato, ma no» mi ha risposto.

Il nonno mi ha detto di non fermarmi troppo dal prete, ché ha la lingua doppia come i serpenti. Poi ha messo gli stivali di gomma, ha preso la canna da pesca ed è andato via. Ho dato un bacio alla nonna e sono andato via anch’io.

Ho seguito una via verticale nell’erba alta, un cammino che qualcuno aveva pestato prima di me, e ho raggiunto l’eremo del prete. Il prete è mio zio, ma non mi chiama nipote, né figliolo. Mi chiama, con tono laico, ragazzo.

«Per volontà divina: ho smesso, ragazzo» mi ha detto, vedendomi tirare fuori la stecca dallo zaino. Ha presagito la mia intenzione di fare domande e mi ha detto che avremmo bevuto un caffè, prima. Mi ha invitato a entrare in casa e non appena ho messo piede in quel rifugio, il buio domestico mi ha tagliato gli occhi; qualche secondo dopo ho potuto vedere una casa che mi appariva, più che rustica, arretrata. Ancestrale, forse.

Mi ha dato in mano la tazzina e ha atteso che parlassi. Volevo sapere se mio padre si fosse mai confessato con lui. Ha fatto un lungo respiro, ha morso i denti e ha tirato fuori tutto il fastidio che all’istante mi è sembrato di causargli. Ha guardato le sigarette, come se la volontà divina volesse vederlo fumare di nuovo.

Mi ha risposto che suo fratello si confessava coi tordi e coi conigli, guardava in alto le rotte degli uccelli quando gli si cercava di parlare. Fischiava al cielo e mangiava la terra.

Quel che so io è che prima di uscire di testa, o forse poco dopo, mio padre gli ha sparato contro, e lo zio s’è difeso. È successo durante una caccia, vent’anni fa. C’è chi dice che sia stato un incidente, ma c’è chi non lo crede perché alla fine uno di loro è sparito, l’altro è rimasto a dissanguarsi nei boschi fin quando il nonno se l’è andato a riprendere.

Non si è mai saputo se sia stato davvero un duello, né da quale disputa sia sorto, ma, sebbene sia poi diventato un uomo di fede, gli occhi dello zio sono tuttora pronti a condannare.

Più che la preghiera e il ritiro, l’assoluzione dovrebbe essere la pratica di un uomo di Dio.

«Non ti ingannare, ragazzo. Dio non esiste. Almeno non in questa contrada».

Il prete mi ha chiamato fuori e ci siamo seduti su una roccia. Di fronte a noi si apriva la vallata. Mi ha chiesto di guardare e di dirgli cosa vedessi. Il solco di un fiume, i campi incolti e le macchie ombrose dei boschi; la luce che colpisce il verde e il verde che la restituisce; ogni tanto un mucchio di tetti con qualcuno dentro che vive una vita semplice e aspetta di morire. Ho riconosciuto che da lì c’era un ottimo panorama e mi ha confidato che ogni volta, ad affacciarsi, più che vedere qualcosa, aveva il timore di essere visto.

«Come stanno i nonni?» «Litigano».

Non è facile, per due genitori, che i figli cerchino di ammazzarsi. Il dolore li ha violati. La nonna è diventata un cane rabbioso, il nonno un gatto diffidente.

Gli ho chiesto, invece, cosa vedesse lui da quella roccia.

Sono stati una famiglia di assassini, bracconieri e anarchici. Ognuno di loro ha poi cercato una via di redenzione. Nella fede o nella demenza, è la stessa cosa. Alla fine nessuno è riuscito a espiare. I più fortunati hanno solo trovato un posto da abitare che li potesse nascondere senza fare troppe domande.

Lo zio si è alzato e mi ha detto che il suo peccato non si è consumato in quello sparo, ma in ciò che è successo dopo. Non è riuscito a tornare dai suoi genitori, né da suo fratello. La comunione è rimasta un desiderio sotto il giogo del rimorso. Negli anni è diventato questo: un prete monco che non pratica l’eucarestia.

«Se in questa campagna non c’è un dio, ragazzo, spero ci sia in questo cielo che vedo. Forse c’è davvero qualcuno, lassù, che prende su di sé i peccati del mondo».

Mi ha poi detto che non è bene per lui trasgredire la solitudine. Che non poteva ospitarmi per la notte. Che tra poco sarebbe venuto buio. Che potevo lasciargli le sigarette.

«Dovresti fare un buon gesto, ragazzo. Dovresti andare via». Ho ammesso che non mi sembrava un buon gesto, e sono andato via.

Un racconto di Daniel Coffaro

Illustrazione di Lola D’Autilia

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